Sandro Somarè e lo straniamento degli ambienti «bloccati» dentro i cubi
Esposizioni Alla Galleria Milano un'antologica dai suoi spazi geometrici alle poesie di Hölderlin come fonte di ispirazione
Esposizioni Alla Galleria Milano un'antologica dai suoi spazi geometrici alle poesie di Hölderlin come fonte di ispirazione
Nella Milano artistica degli anni ’50 la pittura dei fratelli Guido (Milano, 1923 – 2003) e Sandro Somarè (Milano, 1929 – Lucca, 2012) rappresentò senz’altro un’«anomalia», come scrisse Nicoletta Pallini, curatrice dell’ultima mostra a loro dedicata nel 2006 alla Rotonda della Besana. La loro «distanza» non era solo rispetto alla vitalità dell’informale (Ghighine, Dova, Crippa, Bergolli, Peverelli) o al turbamento del Realismo esistenziale (Romagnoni, Vaglieri, Guerreschi), ma era dettata anche dall’essere «figli d’arte»: figli di Enrico Somarè, scrittore e studioso della pittura dell’800 italiano, e nipoti dei pittori della Scapigliatura, Cesare Tallone, il padre della madre Teresa, e di Guido Tallone, suo fratello.
Nel 1928 Enrico inaugurò la Galleria Milano che chiuse prima della guerra mondiale, ma nel 1964, Guido e Sandro la riaprirono con Aldo Bergolli, Mario Rossello e Gianni Dova. Il critico Marco Valsecchi saluterà con soddisfazione il nuovo spazio espositivo ma con qualche dubbio sul suo futuro, visto le diversità stilistiche dei suoi pittori-galleristi. Ebbe naturalmente torto. LA
GALLERIA MILANO, dopo i primi anni di gestione affidati a Lella Russoli (moglie di Franco Russoli), sarà diretta dal 1966 da Carla Pellegrini, amica dei fratelli Somarè che divenendone proprietaria, fino al 2019, anno della sua morte a 87 anni, produrrà più di trecento mostre di artisti e movimenti dell’avanguardia.
Fin qui la sintesi storica che lega le vicende dei due artisti milanesi e della loro galleria d’arte che in circa cinquant’anni di vita ha raccolto un vasto e unico archivio nella sede che dal 1973 fino allo scorso anno era in un palazzo nobiliare di via Turati.
TRASFORMATA in Fondazione, la Galleria Milano ritorna sull’arte dei Somarè con un’antologica, dal titolo Sandro Somarè / L’anse des amis, nella sua nuova sede di via Arcivescovo Romilli. A cura di Nicola Pellegrini, Ornella Mignone e Bianca Trevisan, s’inserisce quale «primo tassello» con l’apertura dell’archivio Sandro Somarè e la presentazione del suo catalogo generale in digitale (www.archiviosandrosomare.it), di un progetto più ampio denominato «Archivi Riuniti», rivolto alla conservazione e allo studio degli archivi d’arte contemporanea. Nei due piani della galleria sui quali si sviluppa la mostra, di là dei cicli pittorici distinti per tecnica (ceracolor, spray) e stili, è evidente quanto già Emilio Tadini scrisse in merito al «valore di un colore estremamente sensibile, acuto sottile» della pittura di Somarè, il quale segue la linea «tendenzialmente figurativa» che rinvia al cubismo analitico e al surrealismo di Yves Tanguy e di Roberto Matta.
DALL’ORGANISMO astratto e onirico degli esordi si passa alla serie dei Paesaggi (Qualcosa di più, 1959). Questo spazio, percorso in filigrana da una combinazione di linee geometriche, si definirà con maggiore precisione fino a trasformarsi in quinte di colore omogeneo dove sono collocate figure umane solitarie.
È ancora la «tenuità cromatica» che accomuna la serie di quadri di questo periodo, denominato Dentro al Cubo Fuori dal Cubo (1965-67), durante il quale avviene un primo cambiamento: dal «paesaggio della fantasia» Somarè approda alla configurazione di ambienti bloccati (il cubo) nei quali è esplicito uno stato di straniamento.
Dalla metà degli anni 80, l’«austero sonno architettonico» (Patrick Waldberg) composto di muri, volte, grandi vetrate corridoi, si popola di figure delle quali non conosciamo la provenienza, ma che si presentano come un’«umanità alterata nelle sue forme» (Un luogo e un mito, 1988).
IL TEMA DELLA CITTÀ fa da sfondo ai cicli dei Muri (1983-86), Mitologie (1983-95), Facciate (1986-96), Periferie (1993-96) e, come nella poetica surrealista, è la dimora del desiderio e del sogno.
La mostra termina con la serie di opere ispirate alla poesia di Hölderlin. Sono superfici tripartite tra il blu del cielo, la linea dell’orizzonte e il suolo. L’«arsenale geometrico» con figure si è dissolto. Resiste solo la stessa intenzione: dipingere, come scrisse Roberto Tassi, per «moltiplicare le attese, attesa della luce, dell’ombra, del buio; ossia attesa dell’ignoto».
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