Alias

Sandro Puppo, l’allenatore e i suoi ’puppanti’

Sandro Puppo, l’allenatore  e i suoi ’puppanti’Sandro Puppo

Calcio Un libro racconta l'allenatore degli anni cinquanta: «Il calcio è musica», da Mattioli 1885

Pubblicato circa un anno faEdizione del 19 agosto 2023

Una foto lo ritrae di fianco ai giocatori in maglia bianconera schierati a centrocampo dello stadio comunale di Torino, vuoto nel caldo del ferragosto 1956: in piedi si vede una fila di ragazzi la più parte ignoti compreso il neoacquisto Kurt Hamrin, coboldo svedese, e il brizzolato centromediano Cesare Nay mentre sotto costoro stanno accosciati degli imberbi cui si mescolano appena un paio di campioni, il capitano Giampiero Boniperti e un centravanti così elegante che sembra anticipare Baggio di decenni, Lelio Antoniotti, purtroppo vulnerato dagli infortuni.

Chi li affianca in tuta ginnica e occhiali cerchiati d’oro è un quarantenne corpulento che pochi mesi dopo verrà esonerato dalla Juventus per gli scarsi risultati della squadra pure se quei ragazzi, detti allora «puppanti», lo rispettano come fosse un maestro socratico. Perché Sandro Puppo, questo il suo nome, è non soltanto un trainer dalle idee decisamente innovative (per esempio adepto del gioco a zona nel paese della marcatura a uomo) ma è colui che ogni sabato sera mette in macchina a turno qualcuno dei «puppanti» e li porta a fare un giro sulla collina torinese dialogando con loro della vita e delle cose del mondo, insomma di tutto meno che di calcio. A tale personaggio di singolarissima fisionomia un giovane scrittore suo conterraneo, Matteo Eremo, dedica una interessante monografia, Il calcio è musica Vita e romanzo di Sandro Puppo, allenatore dimenticato (Mattioli 1885, «Fuoricampo», pp. 280, euro 19.00), fondata su una ricca documentazione e su una voce che parla in prima persona come in un memoriale autobiografico.

Puppo nasce a Piacenza nel 1918 ma gode di una formazione cosmopolita a Shanghai dove il padre è violinista: nonostante l’incandescente situazione politico-sociale (Shanghai è la città della guerra civile tra comunisti e nazionalisti raccontata da André Malraux nel suo capolavoro del 1933, La condition humaine) cui presto segue l’invasione giapponese, con la famiglia vive nei quartieri protetti degli stranieri e ha modo di apprendere le principali lingue europee. Suo padre lo incoraggia a diplomarsi in pianoforte e teme molto la sua precoce passione per il football che, al ritorno in Italia, prende corpo tra il Piacenza e l’Ambrosiana Inter dove Puppo esordisce nel 1937 all’ombra di Giuseppe Meazza, forse il maggior calciatore italiano di sempre. Lui non è un campione ed è forse troppo lento ma possiede lo stile e la visone del gioco dei centromediani «metodisti» (negli schemi di allora i baricentri della squadra, i playmaker piazzati davanti alla propria area di rigore in attesa di lanciare il contropiede): non avrà affatto una grande carriera fra Venezia, Piacenza e Roma ma avrà comunque la soddisfazione di un alloro olimpico (a Berlino 1936, l’apoteosi del nazismo celebrata nell’epica di Olympia, regia di Leni Riefenstahl), figurando da comprimario in una squadra che annovera futuri campioni del mondo quali i terzini Alfredo Foni e Pietro Rava.

Pari agli altri della sua generazione, la guerra tronca in due la carriera e la sua vita medesima il cui solo riferimento, fra le macerie, è l’amore per una ragazza veneziana, Laura, raffinata musicista anche lei, che presto sposerà e gli darà due figli. Ed è quasi naturale per lui, dopo un grave infortunio fisico, traslocare dal campo alla panchina. Non può disporre di luoghi formativi né tanto meno di un Centro tecnico à la Coverciano (che Puppo in seguito contribuirà a fondare) perciò studia da autodidatta, favorito dal cosmopolitismo nativo: viaggia, si informa, legge in diverse lingue le riviste specializzate, è in corrispondenza con il leggendario Walter Winterbottom, ex allenatore del Manchester United e della nazionale inglese, che diviene suo intimo amico. Senza essere un visionario, Puppo ha la mentalità di un innovatore, accarezza un’idea che oggi si dice propositiva del gioco, e la sua «zona», se valutata in retrospettiva, prefigura quella introdotta da Niels Liedholm nella Roma dello scudetto 1983. Peraltro ama ascoltare i suoi giocatori, dialoga con loro puntando su un vincolo etico, prima che tecnico-agonistico, sintetizzabile nelle parole chiave di «forza, equilibrio, coraggio e giudizio». Nonostante Puppo da allenatore non abbia vinto nulla, la sua carriera resta un’eccezione nell’Italia di un calcio provinciale e autarchico.

Nel ’52, sceglie a sorpresa di trasferirsi in Turchia, dove il livello tecnico è primitivo, per allenare la nazionale e il Besiktas. Lo nota il Barcellona che va in cerca di un tecnico capace di sottrarre la squadra alla egemonia del Real Madrid, i cui plurimi successi sono benedetti dal regime di Francisco Franco. A Barcellona resta soltanto un anno ma contribuisce, nella squadra dove milita il fuoriclasse Lazlo Kubala (ungherese già transfuga dal comunismo), a formare un ragazzo galiziano capace di moto perpetuo e di una interpretazione cartesiana del gioco, Luis Suarez, prossimo a trionfare nell’Inter di Helenio Herrera.

Poi viene la Juventus e parrebbe nel momento giusto perché la società, in via di rifondarsi, punta sul settore giovanile dove scalpitano i Garzena, Vavassori, Stacchini, Colombo, anni dopo le colonne portanti del club: Puppo, come detto, svezza i suoi «puppanti» ma i risultati mediocri ed una stampa chiaramente ostile fanno il resto. Dopo l’esonero, dal ’57 c’è per lui un andirivieni fra squadre italiane di relativo cabotaggio (Siracusa, Venezia, Triestina, da ultimo il suo Piacenza) e poi di nuovo la Turchia. Chi paga il prezzo di una pendolarità da tempo trasformatasi in deriva è la famiglia dove è difficile il rapporto con i figli e si esaurisce quello con la moglie Laura. (Qui è la parte più compiuta della narrazione di Eremo – specie quella relativa al rapporto con Laura – forse perché è meno gravata dai rilievi storici e contestuali che la vicenda sportiva impone alla voce che racconta in prima persona).

L’ultima soddisfazione, propiziatagli dall’amico Winterbottom, è l’invito a far parte della Commissione tecnica FIFA ai Mondiali di Città del Messico 1970, come testimonia la foto in copertina scattata in quel mese di giugno a Guadalajara, dove lo si vede in divisa ufficiale fra il grande interno brasiliano Gérson e nientemeno Pelé o Rey. Tuttavia, cacciato dalla panchina del suo stesso Piacenza, Sandro Puppo è un ex allenatore che cura la corrispondenza estera di una azienda piacentina. Deve sopravvivere a due lutti gravissimi, Laura e la figlia appena trentenne. Mantiene il consueto profilo di uomo schivo, civile, e dalla esperienza di tecnico deduce un libro il cui titolo corrisponde ancora una volta a una domanda socratica, Calcio, quo vadis? (Gallarati 1974). Muore a Piacenza il 16 ottobre del 1986, la sua memoria postuma è un lungo oblìo finalmente violato dal volume di Matteo Eremo.

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento