Di Sandrine Collette, 54 anni, sappiamo che vive in campagna e che ama molto i cavalli. Scrittrice assidua e originale, fortemente interessata alla natura e alla sua difesa, è pubblicata in Italia da e/o: Resta la polvere, Dopo l’onda, E sempre le Foreste, e ora Eravamo lupi (traduzione di Alberto Bracci Testasecca) che affronta in modo originale e appassionato un argomento raramente toccato direttamente dalla letteratura recente, ma talvolta dal cinema di ieri: quello dei figli non amati, perché la loro nascita ha comportato la morte della madre.

Capita a molti, prima o poi, di conoscere persone che venendo al mondo hanno in qualche modo provocato la morte della loro madre; e capita anche di conoscere dei padri che, di conseguenza, non amano il figlio o la figlia che li ha privati di un amore e di un conforto primari ed essenziali. In una chiave fantastica, questo è un argomento da fiaba, quello di un padre che sa di orco e di un figlio che sa di Pollicino. In chiave di melodramma, questa origine incide in modo indelebile sulla serenità del figlio o figlia non amati, e di padri che li considerano responsabili del loro dolore.

La riconciliazione è difficile. Normalmente, è però più facile conoscere figli tuttavia non voluti, e pertanto non amati davvero dalle loro madri – con esiti obbligati di nevrosi adulta, non so quanto studiati dagli psicoanalisti. Dietro certi adulti molto nevrotici, si scopre prima o poi che le loro madri (più dei loro padri) non sono riusciti ad avere con loro un rapporto sereno.

Il romanzo di Collette parla di questo, ma ambienta la sua storia in località di montagna, ché il padre, il protagonista di cui il romanzo inventa e segue le orme, lui e il figlio non amato, ché il padre non sa darsi pace e vagabonda di lavoro in lavoro e pur sempre da bosco a bosco, piuttosto nella natura che a contatto con altri umani. E i lupi non sono solo una metafora degli umani, sono lupi veri e minacciosi. Il vagabondaggio di padre e figlio – di un padre che non sa accettare il figlio e non riesce a non dimostrarglielo, e di un figlio che non sa bene come reagire – è raccontato in prima persona dal padre, che ragiona sul suo dolore e sulla sua difficoltà. Che dice: «Non posso mettermi a odiarlo. Non ne ho la forza».

Sandrine Collette abbandona in questo romanzo i toni più forti dei precedenti, più drammatici e, nella scrittura, legati a modelli molto alti e difficili, al punto che molti critici hanno voluto paragonarla a quella di un Faulkner (e c’è perfino, indietro, del grand-guignol…), e sembra piuttosto riscoprire una certa vena favolistica che può far pensare a Carrère.

E questo padre un po’ orco e questo figlio un po’ Pollicino ci sembrano più convincenti e vicini, mentre è ancora alta e convincente la descrizione della natura. E se nei suoi romanzi avvertiamo qualche eco sia di una certa fantascienza che della favolistica antica va tutto a sua lode: una scrittrice pienamente di oggi, che sa muoversi tra nuove e antiche preoccupazioni, tra nuovi timori e nuove (antiche) speranze.