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Sandra Pinto, sfortuna e curiosità di una lezione «oltre»

Sandra Pinto, sfortuna e curiosità di una lezione «oltre»Sala dei Veneti della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, ordinamento Pinto, acquerello di Luis Serrano (2005), collezione eredi Pinto

Un profilo in occasione del ritorno, da Einaudi, del saggio "militante" "La promozione delle arti...", curato da Giovanna Capitelli La dilapidazione, nel «paese senza», di un modello affascinante, per i musei e per la storia dell’arte: che ha sposato il rigore della ricerca e la coscienza dell’istituzione con un naturale istinto all’eversione intellettuale e una poetica sensibilità scenografica

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 4 settembre 2022
Sandra Pinto Soprintendente a Torino, 1994
Sandra Pinto su un carro trascinato dal trattore con Marco Chiarini e Kristin Piacenti, 1978
Sandra Pinto, prima da destra, all’inaugurazione della mostra “Caravaggio e i caravaggeschi” a Firenze, Palazzo Pitti, 1970

Quando scompaiono figure eminenti del faubourg culturale, è raro che per ricordarle si eviti di ricorrere all’equazione dimensionale vita/opera, indisponibili come siamo ad ammettere che a una statura intellettuale fuori dal comune possa non corrispondere, magari per scelta di stile, una potenza di pari magnitudo nell’affermazione sociale della personalità. Per non finire in quel topos, e in nome del suo rifiuto a sprecare energie per plasmare sé stessa come personaggio, verrebbe voglia di invocare l’oblio su Sandra Pinto (1939-2021), la quale, nemica in vita di ogni semplificazione comunicativa, osserverebbe scettica, oggi, le scorciatoie di un massimalismo celebrativo a lei dedicato, più interessato a bucare lo schermo con pillole telegeniche di leggenda che non disposto ad assumersi qualche responsabilità sul senso e sul destino di un’eredità.
Faremmo meglio, allora, a scordarci del suo magistero di storica, dei suoi scritti fondativi, delle sue imprese ciclopiche e insuperate nei musei italiani; e tornare semmai a misurarci col suo lascito solo quando fossimo pronti a farci i conti senza frivolezze mitopoietiche che, scartando la parte indigesta, offrano una selezione commestibile di momenti esemplari alleggerita da asperità con ricadute sull’oggi; un distillato di memorabilia la cui evocazione, in pratica, non implichi l’impegno a un bilancio complessivo e a un posizionamento critico. E che magari, tramandando kuriositäten del suo modo di essere e di apparire (come ad esempio, dietro alla leadership volitiva, quell’ingenuità un po’ impacciata alla Henrietta Lowell), omettano di riconoscere il peso morale decisivo della sua dote meno premiante, d’intralcio a qualsiasi epica spendibile: un candore guerriero e anti-narcisista, fatto di ardimento, intransigenza e spirito di sacrificio ai limiti di un voto laico. Poco premiante, eppure capace di lanciare al prossimo – oltre la severità e la pudicizia – la sfida di una seduttività criptata sulle alte frequenze la quale, impercettibile per molti, risultò invece irresistibile per noialtri, incantati di generazione in generazione dalle sofisticherie di un carisma senza ego tutto pensiero e verità, pressoché inedito nello star system della storia dell’arte italiana.
Ecco: accreditare l’anomalia costituita dalla coesistenza, nella sua personalità, di una visione intellettuale eccezionalmente lucida, sfidante e divisiva e di una virtuosità completamente epurata da pulsioni egoiche, diventa oggi la precondizione per ripensare «agli scarti impetuosi e ai traguardi osati» di questo irripetibile purosangue della nostra cultura, senza uscire di pista nello slalom insidioso tra ciò che fece e ciò che fu.
In realtà, se rastrelliamo il suo percorso, di commestibile per i palati correnti troviamo ben poco e di indigesto quasi tutto. E non, come si penserebbe, per un gusto ad andare controcorrente («Non vale, tu dici che è bello soltanto perché è brutto», scherzava Gianni Romano per canzonare la sua difesa a oltranza di dipinti particolarmente ostici del romanticismo storico) quanto per una fiducia un po’ marxista e un po’ evangelica nella possibilità del riscatto, per un’attrazione irresistibile verso quelle zone della storia scabrose e irrisolte, inappetibili e di fatto disertate da ogni curiosità euristica, dove uno scavo avrebbe avuto più valore che non in territori nobili e redditizi, dissodati da sempre e da tutti.
Neofunzionaria a Palazzo Pitti
Una determinazione intrepida a entrare di piede nelle questioni scomode e a prendersi cura, contro ogni calcolo di convenienza, di argomenti reietti o tabù, la quale emerse nitida già dal suo primo gesto di neo-funzionaria a Palazzo Pitti all’inizio dei Settanta – lei spericolata trentatreenne e transfuga arganiana nella fossa dei leoni fiorentina – con quel fiero e geniale sintagma critico, Sfortuna dell’Accademia, titolo di una magistrale mostra inaugurata nel 1972 nonché bandiera metodologica di un piccolo esercito di giovani leve in Italia e in Europa, conquistate dal fascino innovativo del suo modello di lavoro. Una rassegna a tesi pronta per confluire a mo’ di assunto storiografico nell’ordinamento delle prime sale di una Galleria Moderna da alloggiare negli appartamenti lorenesi della reggia fiorentina, dove ricucire il tessuto della storia dell’istituzione in età neoclassica e romantica attraverso una nuova verifica, rigorosissima, della vicenda delle opere e dei nessi tra di loro.
Ma la differenza, quella che la distinse da tanti altri teorici, la fece ancor di più una capacità innata (derivata da un istinto architettonico fuori del comune) a comprendere da artista le regole formali dei concetti ambientali di decoro e di fasto, riuscendo così a evocarli nelle sue ricostruzioni in maniera esatta e credibile, senza bisogno di ricorrere a ridicole compulsività museografiche ma assestando qua e là tocchi scenografici da maestro, tra il teatro di Visconti e gli interni reinventati di Renzo Mongiardino («La mi veniva col su’ librino», ricordava con un filo di humour l’anziano tappezziere fiorentino che per lei aveva confezionato i parati in lino per le finestre sulla corte interna di Pitti; laddove il ‘librino’ era La filosofia dell’arredamento di Mario Praz che lei – esigente sparring partner di sarte e falegnami, giardinieri e corniciai – gli portava in bottega costringendolo a concentrarsi come uno studente sull’effetto da ottenere).
Ma ricordiamoci anche di quel quarzo blu pavone che ‘inventò’ per le pareti della sala neoclassica in Galleria Nazionale d’Arte Moderna, con l’Ercole e Lica e le bianchissime sculture Torlonia a comporre su quello sfondo un Wedgwood romano mozzafiato (con applausi scroscianti, all’anteprima, dei soliti happy few e schiere di facce imbronciate, offese per l’affronto di vedere spodestata dalla sala regina l’avanguardia novecentesca, per decenni unico e incontrovertibile biglietto da visita identitario del museo).
Questo suo istinto all’eversione, naturale benché sorvegliatissimo, fu – a suo svantaggio – immune da qualsiasi auto-compiacimento, sgorgando piuttosto da quell’intimo imbarazzo che le procurava l’essere banale, un peccato che a lei – figlia di militare imbevuta volente o nolente di valori cattolici – pesava sulla coscienza quanto quello, gravissimo, di inadempienza ai propri doveri («io mi adorno di sensi di colpa», diceva sincera simulando il gesto vanitoso di indossare orecchini e tiare, volendo riferirsi al tormento che per lei costituiva l’idea di non essersi spesa abbastanza in qualcuno dei suoi compiti, e non solo sul lavoro). Contemporaneamente, neanche a dirlo, nel suo rifiutare le piste battute si guardava bene dallo strizzare l’occhio alla cultura della tabula rasa che già allora iniziava ad avvitarsi nel loop avanguardista e che sul professionismo dello scandalo andava costruendo floride carriere. Guardò del resto con totale indifferenza all’inevitabile incomunicabilità che si andava creando con i sacerdoti di quella religione i quali, invero, la videro sempre come un corpo estraneo e disturbante. Esemplare ne fu la lunga battaglia, in ultimo perduta, per sottrarre la corrente macchiaiola (per molti, unica isola salvabile nel panorama del «secolo inutile») alla pretesa di un’originalità sorgiva e antagonista, a mo’ di impressionismo nostrano, riconducendola con rigore agli infiniti intrecci di quell’unico scacchiere storiografico in cui tutto – idee, persone, oggetti – scorre lasciando un tracciato.
L’intesa con Cristina Piacenti
Questa spiccata sensibilità, che Pinto trovò poi riflessa nel mondo della Yourcenar, per «la grande lezione delle cose che passano», il tributo offerto in studio alla loro sacra autorevolezza di fonti parlanti, trovò forma compiuta in Curiosità di una reggia, seconda e davvero memorabile rassegna espositiva presentata a Pitti nel 1979. Omaggio conclusivo al prestigio dell’istituzione prima della sua partenza da Firenze dopo un decennio di lavoro, l’impresa rappresenta anche una testimonianza dell’incontro con Cristina Piacenti Aschengreen, custode competentissima dei tesori medicei che, forse sulla base della sua diversità nordica, ebbe in quegli anni con Pinto un’intesa quasi gemellare, tra i passaggi più dimenticati della sua biografia.
Né Sfortuna, né tantomeno Curiosità, furono però semplici trovate eccentriche, come accadrebbe oggi nell’età della vanagloria curatoriale, quanto – in una logica civica della ricerca museale oggi condotta all’inapplicabilità – il precipitato sintetico del suo modello di lavoro offerto per verifica alla comunità committente. Quel lavoro di fino fatto sulle opere e sulle fonti, svolto in buona parte nei depositi di Palazzo Pitti simmetricamente a quanto andava facendo Evelina Borea per il negletto Seicento, costituì in quegli anni un vanto avanguardistico nel sistema della Soprintendenza fiorentina guidata da Luciano Berti, l’ammiraglia del sistema amministrativo statale giunto allora a regime, così salda nel solco della sua tradizione identitaria da potersi concedere fughe in avanti senza timore di subirne destabilizzazioni e, anzi, aperta a trarne prestigio.
Non si può dire, infatti, che il decennio fiorentino abbia trasformato in una di loro Sandra Pinto la quale, pur apprezzata, restò sempre una creatura strana (si dice che Previtali, dopo un invito a cena, avesse squalificato con sdegno perbenista lo stile del suo micro-appartamento sul Lungarno, il primo da ragazza indipendente, dove a vecchi mobili di famiglia e reperti concettuali dei suoi esordi a Valle Giulia aveva mescolato pareti a specchio e certi sconcertanti poufs animalier Secondo impero: «Sembra un bordello!»). Ma è vero che il rispetto che la città intera tributò alla sua serietà scientifica e alla sua militaresca efficacia operativa – complice l’endorsement a distanza di Paola Barocchi – continuò a vivere anche dopo che Pinto lasciò la Toscana, facendo da scudo al lavoro realizzato che lì restava. Non è un caso se la Galleria Moderna di Pitti è a oggi l’unico tra i suoi musei che riflette e onora ancora il suo metodo di ordinamento, laddove né in Galleria Sabauda (prodigiosamente riallestita in chiave di storia dinastica insieme a Michela Di Macco nel decennio 1986-’95, ancora in Palazzo delle Scienze), né in Galleria Nazionale d’Arte Moderna (riallestita per intero in parallelo al restauro strutturale ed estetico dell’edificio tra il 1996 e il 1999), sono state offerte attenzione o idee per la gestione a posteriori del patrimonio rappresentato dai suoi ordinamenti; patrimonio immateriale e fragilissimo e di fatto infrantosi irrimediabilmente, a Torino come a Roma, all’indomani della sua uscita di scena. E considerando che ormai ci si professa tutti museologi, deprime particolarmente notare come questa damnatio, qualificata al momento del dunque come necessaria e inevitabile, sia avvenuta senza che una sola riga di riflessione pubblica fosse messa agli atti per sostenere con argomenti a prova di studio e di confutazione l’avvicendamento di visione proposto/imposto; come se riordinare un museo coincidesse con un diritto direttoriale dato, tipo legge salica, o con un esercizio di arredo, rimescolando a proprio gusto una collezione come si fa con le poltrone di casa o il colore della sala da pranzo, magari affidandosi a un architetto alla moda, e non fosse piuttosto una verifica, a scadenza di cicli storici, del perdurare di legittimità di un’interpretazione già validata dal tempo, assumendosi ove necessario la responsabilità critica (o poetica) di proporne una nuova.
Lectures su invito di Paola Barocchi
A fronte di una simile dilapidazione di valori acquisiti, ha del miracoloso la ripubblicazione, a un anno dalla morte, del suo saggio-fiume per Einaudi (Sandra Pinto, La promozione delle arti negli Stati italiani dall’età delle riforme all’Unità, a cura di Giovanna Capitelli, Piccola Biblioteca Einaudi, pp. XXVIII-482, € 34.00). Al netto di un numero più ragionevole di illustrazioni, pretese allora dall’autrice in quantità abnorme, questo contributo dal forte connotato simbolico costituisce, speriamo, il primo di una serie di ‘interventi in emergenza’ per la messa in sicurezza del suo legato culturale. Nato dalla costola di Sfortuna dell’Accademia, cresciuto sullo stimolo di una serie di lectures offerte al Gabinetto Viesseux su invito di Barocchi nei primi Settanta, il saggio estese il modulo mediceo-lorenese della mostra a tutto il sistema artistico degli stati preunitari, diventando un trattato storico in forma di saggio di una densità mai più tentata. Un Gradus ad Parnassum che incarnò a pieno le accensioni ideologiche di quegli anni, facendosi protagonista di parte in quella frattura drammatica consumatasi in seno al comitato scientifico della Storia dell’Arte Einaudi, tra un’idea della disciplina come cimento intellettuale avanzato e militante e un’altra che spingeva per ricondurla in chiave anglosassone ai binari più tecnici di un esercizio – certamente altrettanto avanzato – di connoisseurship. Una battaglia che, nonostante la qualità dei protagonisti, ebbe esiti più devastanti che costruttivi e sulle cui macerie post-ideologiche ebbe modo di diffondersi, tra gli addetti ai lavori, il contagio virulento del disimpegno, della perdita del senso della qualità, della tolleranza connivente verso il proliferare di prodotti scadenti, dell’abdicazione al potere come responsabilità in cambio di piccole prebende di status, ‘malattia’ alla quale dedicò, chiedendomi di assisterla, il pamphlet Gli storici dell’arte e la peste, le cui imperfezioni dovute in gran parte alla difficoltà di gestire un impianto narrativo corale non tolsero al risultato il conforto di un relativo successo come vessillo di un’idea della disciplina antagonista al main stream.
Il memorabile party Incipit Vita Nova
Col passare degli anni e col triste passare di moda del suo impegno militante, soprattutto con le battaglie che a Roma condusse contro potenti e radicate élites per difendere tutto intero l’ambizioso disegno istituzionale del Centro per le arti contemporanee (progetto magno che portava la Galleria Nazionale a essere la porzione storicizzata di un sistema di promozione pubblica dell’arte vivente, sfociato tra mille incomprensioni e in modo quanto mai parziale nel MAXXI), il fedele drappello di noi ammiratori fu ampiamente sormontato in numero da un partito trasversale apertamente ostile alla visionarietà prepotente della sua azione istituzionale, tanto da spingerla (primo suo gesto a noi noto di rinuncia e arretramento) a un suo ritiro anticipato dall’amministrazione. Avvenimento che Pinto volle celebrare con sfarzo nell’indimenticabile party Incipit Vita Nova allestito nel giardino delle Fontane, appena rimesso in auge insieme a Paolo Pejrone nel parterre nord della Galleria, in uno spensierato contesto trasversale dove tanti protagonisti di un mondo ormai in dismissione sfilarono per l’ultima volta di fronte a tante giovani leve, ignare del rimpianto che avrebbero presto provato per la loro imminente e non rimpiazzata uscita di scena.
Nel contesto di una convivenza mai arrendevole col progressivo degrado della disciplina e di fronte a tanta indifferenza nostrana, pesano come pietre l’interesse e la stima che Pinto seppe suscitare – senza questue di amicizia ma col solo peso dei risultati portati – in un pantheon di divinità riconosciute che annoverava, tra i tanti, Francis Haskell, Jean Clair, Robert Storr, Neil Mc Gregor, Pontus Húlten, Alfred Pacquement, Glenn Lowry, Alvar González Palacios, oltre naturalmente agli affetti più cari tra cui certamente, benché in fasi diverse, Gianni Romano e Stefano Susinno. E pesa altrettanto l’aver saputo colpire al cuore carismatiche femmes fortes del panorama internazionale come Irène Bizot, Anne d’Harnoncourt, Zaha Hadid, le quali, per quel che fece e per come lo fece, la adorarono come fans, con buona pace di chi, per insipienza, preferisce ricordarla come una buffa Signorina Herta buona solo a mettersi di traverso con cocciuta intransigenza a chi provava a ‘fare sistema’ con le istanze emergenti dell’economia della cultura.
Al contrario, finché le fu dato l’agone, Pinto conquistò i suoi obiettivi sulla base di una soverchiante autorevolezza, affermata senza altre armi che non fossero la sua capacità di visione nitida, senza orpelli o sovrastrutture, della Storia e dell’Arte. In questo senso, e in un’epoca lontana dalle suscettibilità di genere, Argan – riferendosi alla virile prensilità del suo pensiero – definì quella di Pinto «un’intelligenza maschia»; intuizione più che sensata del suo primo maestro che ritengo possa trovare una più sottile formulazione nelle parole che il figlio Quentin dedicò alla madre, Vanessa Bell: «she possessed just those qualities which her father would have prized in a son: honesty, courage, firmness and tenacity (…). But in a girl who should make a grace of weakness and display a certain charming, yielding timidity, these virtues became a wholly unwomanly boldness and obstinacy».

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