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Sandra Pinto, i suoi musei-capolavoro la memoria del futuro

Sandra Pinto, i suoi musei-capolavoro la memoria del futuroUna sala della Galleria d’Arte Moderna a Firenze, Palazzo Pitti, nell’allestimento di Sandra Pinto

Un ricordo della storica dell'arte scomparsa È stata veramente una maestra, nell’amministrazione delle Belle Arti come nella museografia, nel modo libero e sperimentale di storicizzare (la radice: Argan) come nella... vita

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 29 novembre 2020

Stavolta è stato il turno di di Sandra Pinto, un nome che a molti dei lettori di questo giornale dirà ben poco. Si tratta di uno dei maggiori storici dell’arte italiani della seconda metà del XX secolo, ma i suoi meriti vanno ben al di là dei risultati disciplinari o delle acquisizioni scientifiche.
Bianca Alessandra Pinto è stata veramente una maestra e un esempio dei più alti di che cosa significasse essere un funzionario dell’amministrazione delle Belle Arti nell’Italia del Novecento. Quando a scorrerla, dal Nord al Sud, si trovavano spesso alla testa degli uffici e negli uffici le persone più competenti nella conoscenza del patrimonio artistico di quel determinato segmento del nostro paese. Ma in Sandra c’era più di questo, più di una moralità inscalfibile che l’ha tenuta sempre lontana dagli intrecci con il mondo del commercio, dai pasticci con le società di servizi che organizzano le mostre, generiche e intercambiabili, dalle curatele di libri inutili, e, in altre parole, da quella brandizzazione di sé stessi che sembra la condizione del successo. Lei non ha mai rifatto la stessa mostra, mai ripubblicato lo stesso libro, mai messo il proprio nome in contesti lontanamente discutibili. E mai niente low cost, niente amici dei mostri, niente ribassi, semmai, com’è naturale, qualche infatuazione difficilmente comprensibile per persone che a molti di noi non sembravano così interessanti.
La Sandra ha costruito tutta la sua esistenza non concedendo sconti a nessuno, e in primo luogo a sé stessa. L’omissione di un’Umlaut o un accento sbagliato in una parola straniera, una data trascurata o fraintesa, la mancanza di un numero d’inventario potevano essere il punto di partenza per un rimprovero, per una telefonata sgradevole. Questioni di principio poste su elementi che per altri erano, e sono, di dettaglio; ma lei dall’infinitamente piccolo passava, con naturalezza, all’infinitamente grande. E quelle sfuriate, per questioni che a molti sembravano irrilevanti, sono sì servite a rompere rapporti, persino illustri, ma anche a cementare i superstiti, fino a dare vita a una sorta di società segreta che accomuna quelli che rischiano di diventare i vedovi della Pinto. Nel richiamo, inevitabile, a un personaggio che le era carissimo. O non sarà magari da evocare, visto il genere prevalente tra i maschi, Franca Valeri?
Non è facile presentare ai lettori un’avventura intellettuale come la sua, difficilmente verificabile in maniera tangibile, perché i risultati appartengono, più di quelli di ogni altro storico dell’arte italiano, a un mondo contiguo, e intrinsecamente fragile, quello del teatro. E non perché la Sandra fosse una frequentatrice appassionata di spettacoli, ma perché le sue opere maggiori, i suoi capolavori, sono stati non articoli o libri, ma allestimenti. Più di musei che di mostre: eppure questo, per uno strano scherzo del destino, non li ha protetti. E quindi, ora che in sostanza non ci sono più, li studiamo sulle vecchie fotografie, esattamente come un Oreste di Visconti, un Galileo di Strehler, un Orlando di Ronconi. Chi li ha visti, li racconta a chi non ha avuto la fortuna di assistervi.
La storia della Pinto nasce e finisce a Roma:1940-2020. Comincia con Argan, da cui assorbe tutto il meglio, ma ha la capacità di contaminare subito quell’esperienza con la lezione, fuori da ogni schema, di Paola Barocchi: e così nella Firenze degli anni Settanta, dove approda come funzionaria in Soprintendenza e ci resta fino al 1979, è in prima fila in quell’operazione di rilettura dell’Ottocento italiano che costituiva, in quel frangente, la punta più avanzata della ricerca storico-artistica. Era il secolo lasciato perdere dalle sintesi longhiane, in cui si potevano sperimentare, come in una palestra, nuove metodologie, estranee alle più banali interpretazioni storico-stilistiche, agli schematismi ideologici, alla manualistica di ogni genere. C’era il Neoclassicismo da rivedere, il Romanticismo storico, tutto da scandagliare; c’erano i Macchiaioli da sottrarre alle più rassicuranti letture nazionalistiche e così via. Andavano approntate nuove forme di schedatura per gli oggetti, attraverso esercizi faticosi e implacabili, dove l’archivio e l’emeroteca erano d’obbligo e non bastavano le sale rassicuranti, e talvolta narcotizzanti, del Kunsthistorisches Institut. Quella storia dell’arte nuova, volta al «secolo inutile», diventava il laboratorio di ricerca per un gruppo scelto di giovani studiosi e in quel manipolo la Sandra non era seconda a nessuno. Il frutto di quella fatica saranno le sale rinnovate all’ultimo piano di Palazzo Pitti, con un occhio a Luchino Visconti e uno a Giulio Paolini. E infatti, per Curiosità di una reggia, non sarebbe mancata Vera Marzot, l’assistente di Piero Tosi per il Gattopardo.
Accanto, oltre all’orario di lavoro, la sintesi sulla cultura figurativa italiana dal maturo Settecento all’Unità per la Storia dell’Arte Einaudi: trecento pagine, iniziate nel 1974 e stampate nel 1982, senza note, con una capacità di analisi impressionante, superata solo dalla generosità dell’impresa, fatta perché altri potessero, su quelle basi, continuare a studiare, costruire magari delle carriere. Che amarezza quando pochi anni fa, in uno degli infiniti convegni che affliggono la disciplina, quello sulle arti nella Lombardia asburgica, nessuno ha trovato modo in quattrocento pagine di fare, almeno una volta, il suo nome.
Dopo quella Firenze sperimentale, un pianerottolo romano, con il tentativo, abortito, di ridare vita alle esperienze dell’esotismo del tardo Ottocento lungo via Merulana, al Museo d’arte orientale; ma come dimenticare il testo, scritto in prima persona maschile, dove il conte Primoli raccontava i kakemono? In una scappata a Firenze, al principio degli Ottanta, c’era stato il riallestimento del salone con i gessi di Lorenzo Bartolini all’Accademia; io ero studente, ma la Barbara Cinelli mi aveva portato lì ad assistere perché «non puoi non vedere come lavora il generale Pinto» (poi avrei appreso che altri la chiamavano «la Mussolina»). Dava ordini alle maestranze con il piglio di un grande regista, decideva i piazzati, si preoccupava di evitare gli sfori, faceva fare e disfare, alla ricerca di un equilibrio che fosse storico, ma all’ultimo delle brutte tende lamellari, come usavano in quell’epoca, rischiavano di fare franare tutta quella fatica e tutta quella filologia.
E poi Torino, chiamata da Gianni Romano, dove ritrovava, arrivata anche lei dalla Roma di Argan, Michela di Macco. Che anni per la tutela in Piemonte. Che sforzi di ripensamento sul senso del mestiere. I segmenti della nuova Galleria Sabauda che la Sandra aveva voluto salvando il guscio anni Cinquanta di Piero Sanpaolesi, ma aggiornandolo alle più sofisticate interpretazioni della storia, alle capriole più erudite dei taboga del gusto. Haskell non era passato invano. Ma, dopo pochissimi anni, tutto è andato alle ortiche: quel tipo di museo – dove la militanza era la storia, anche quella più squisitamente dinastica – richiedeva, come certi spettacoli di Ronconi, un impegno allo spettatore ormai considerato eccessivo. E quindi la sorte di quell’allestimento era irrimediabilmente segnata, come quella della stagione che l’aveva prodotto.
Finalmente, nel 1994, il ritorno a Roma, nel museo in cui aveva cominciato la carriera: la Galleria Nazionale d’Arte Moderna, che Palma Bucarelli aveva forgiato, a propria immagine e somiglianza, facendone uno degli avamposti della cultura del contemporaneo. Ma la Galleria in cui approda la Sandra non era più quella: il lungo crepuscolo della Bucarelli e le direzioni successive ne avevano appannato l’immagine. C’era da buttarsi a capofitto e farne, a tempo di record, un museo nuovo (1997-1999), mentre intorno la nostra area stava andando a ramengo: e di qui il libro, scritto insieme a Matteo Lafranconi, sugli storici dell’arte e la peste, come un Decameron contemporaneo, una peste delle coscienze, una perdita del senso della qualità, una perdita dell’etica, una perdita del gusto. Non so se riuscisse a essere un baluardo la pasoliniana «riapparizione poetica di Roma» in fondo al Kolossal montato al Quirinale, nel 2001, per l’anniversario dell’Unità d’Italia.
In fondo, il gesto che più di ogni altro dimostra la grandezza d’animo della Sandra è la sua presenza all’inaugurazione della nuova Galleria d’Arte Moderna, risistemata, dopo un altro periodo opaco, da Cristiana Collu. Chi s’immaginava che la Sandra avrebbe sdegnato quel montaggio ferocemente lontano dalle categorie della storia dentro cui siamo cresciuti e a cui noi continuiamo a credere, con l’Ercole e Lica di Canova che si specchia nel Mare di Pascali, si sbagliava di grosso. La sua intelligenza le ha permesso di capire che – fatte salve le premesse di onestà intellettuale – esistono altri modi di organizzare un museo, di accostare tra loro le opere, di renderle vive, di riscrivere il passato. Come vi sarete accorti, di Sandra Pinto potrei parlare per ore.

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