A Pechino finisce un’epoca
Cina L'Assemblea Nazionale decide l'abolizione della legge del figlio unico e i campi di lavoro
Cina L'Assemblea Nazionale decide l'abolizione della legge del figlio unico e i campi di lavoro
Come annunciato dal terzo Plenum del Comitato Centrale del Partito Comunista dello scorso novembre, la Cina procede con le Riforme di carattere sociale: al via il cambiamento della legge del figlio unico, che apre alla possibilità per le famiglie cinesi di avere due figli e fine dell’era dei campi di lavoro, istituti amministrativi dove finivano per lo più tossicodipendenti, prostitute e petizionisti. L’Assemblea nazionale, quanto di più simile ad un Parlamento esista in Cina, ha quindi dato l’avvio a due riforme che chiudono definitivamente un’era, consentendo al paese di rispondere anche ad alcune critiche internazionali che spesso venivano mosse contro Pechino.
La fine della legge del figlio unico interrompe la riforma avviata nel 1979 da Deng Xiaoping e che avrebbe evitato alla Cina di contare, oggi, su 400 milioni di persone in più. All’epoca la legge venne istituita per un rigido controllo delle nascite, che ha aiutato non poco il paese a sviluppare a pieno il suo miracolo economico. Una legge già ricca di eccezioni, per le minoranze, per alcune zone rurali e per le famiglie composte da due figli unici. Da oggi però anche i nuclei familiari composti da almeno un figlio unico, potranno avere due figli. Le motivazioni del cambiamento di rotta sono molto chiare ai cinesi: la popolazione sta invecchiando in modo drastico e il rigido controlle delle nascite attuato soprattutto a inizio anni 80, ha portato gli uomini a sovrastare in termini numerici le donne: sarebbero almeno 24 milioni i maschi che non trovano una compagna con cui dare vita ad un nucleo familiare. Si tratta dunque di una modifica alla legge che va incontro a esigenze economiche (in alcune zone del paese manca manodopera giovane) e sociali. Del resto la Cina conferma la propria propensione alla «sperimentazione», contrariamente a quanto accade in Occidente: la legge sul figlio unico- infatti – è stata modificata nei mesi scorsi già in alcune zone del paese. Pechino procede così, e non solo su questi argomenti: si sperimenta, si prova, si valutano le conseguenze e se il bilancio è positivo le decisioni diventano nazionali. Del resto da tempo la legge sul figlio unico è al centro di discussioni e polemiche. Lo scorso anno l’Istituto di statistica nazionale, aveva pubblicato i dati relativi agli aborti negli anni della legge, oltre 300 milioni, creando un vivace dibattito.
Il provvedimento ha vissuto periodi di grande intransigenza da parte dei funzionari addetti al suo rispetto, la cui carriera era dipendente dagli obiettivi prefissati dal controllo delle nascite. Questo ha portato a due conseguenze molto gravi per la socialità cinese: in primo luogo i funzionari hanno costretto molte donne ad aborti forzati, in secondo luogo, quando le famglie non potevano pagare le multe per i figli in più, specie nelle campagne, i funzionari provvedano a veri e propri rapimenti, che alimentavano un circuito di adozioni e vendita di bambini, dai confini ancora tutti da comprendere. Inoltre specie nei primi anni della legge, e soprattutto nelle zone rurali del paese, era consuetudine uccidere la figlia femmina, per guadagnare un posto in più ad un potenziale figlio maschio, più utile nel duro lavoro dei campi. Da allora, non a caso, ai medici cinesi è vietato rivelare il sesso del nascituro ai futuri genitori; una pratica che oggi viene spesso scongiurata con una mini mazzetta di poco più di 100 euro.
L’altra novità arriva sul fronte complicato dei campi di lavoro, ovvero i laojiao (che oggi sono 250 per un totale di 160mila prigionieri). Un isitituto fastidioso, tra i simboli più evidenti dell’iniquità del sistema giuridico e luogo di abusi commessi nei confronti dei più deboli. «I laojiao hanno esaurito la propria missione storica e sono oggi anacronistici» hanno scritto i media statali. Istituiti nel 1957, con lo scopo principale di eliminare avversari politici, i campi di lavoro sono diventati nel tempo i luoghi nei quali finiscono per lo più poveracci, disgraziati, a volte colpevoli solo di aver contrastato il funzionario prepotente e arrogante di turno. Si tratta di luoghi disumani, dove sono all’ordine del giorno violenze e hanno costituito fino ad oggi un argomento tra i più «sensibili», vale a dire vietati, in Cina. Nei mesi scorsi una rivista, Lens, propose sulle sue pagine un reportage su un campo di lavoro, attraverso il racconto di alcune donne che ne erano uscite. Nel giro di poche ore la rivista venne chiusa. Oggi sembra che tutto possa cambiare, anche se sui laojiao esistono ancora alcune domande inevase. Pare che possano infatti diventare dei centri per tossicodipendenti ma ci si chiede che fine faranno i tanti che sono al momento reclusi in queste strutture. Una posizione delicata è quella dei petizionisti, ovvero coloro che a seguito di un torto subito, si recano a Pechino a chiedere giustizia al governo centrale. Si tratta di una pratica «imperiale» in voga ancora oggi. I petizionisti sono le vittime preferite della polizia delle grandi città: per loro si schiudono le sbarre dei campi di lavoro o le porte delle cosiddette «black jail», residence o appartamenti cittadini dove vengono rinchiusi, prima di essere autorizzati a tornare ai luoghi di origine.
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