Internazionale

San Suu Kyi diserta il Palazzo di vetro e l’Onu attacca sui Rohingya

San Suu Kyi diserta il Palazzo di vetro e l’Onu attacca sui RohingyaLo sbarco di profughi Rohingya in Bangladesh domenica scorsa – Xinhua

Myanmar «Catastrofe umanitaria, inaccettabili i raid contro la minoranza». Il debole governo della Nobel per la pace ostaggio dei militari. L’indignazione internazionale per la rappresaglia dell'esercito birmano cresce, ma Cina e Russia frenano

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 14 settembre 2017

È forse stata anche la decisione di Aung San Suu Kyi di non partecipare alla prossima Assemblea dell’Onu a New York a scuotere nuovamente il Palazzo di Vetro sulla questione rohingya. Il segretario generale Antonio Guterres, che già aveva preso posizione nei giorni scorsi ma non si era spinto così avanti, ha usato ieri parole forti: la situazione di questa minoranza si avvia ad essere «catastrofica» e sono «completamente inaccettabili» le azioni dei militari birmani che devono essere sospese.

LE PAROLE DI GUTERRES – e nel linguaggio della diplomazia a volte anche un solo termine o un rafforzativo fanno la differenza – segnano un livello sempre più alto nell’asticella che registra gli umori della comunità internazionale e la sensibilità delle agenzie umanitarie – dell’Onu e non – che non riescono a fare il proprio lavoro per dare sollievo alla minoranza rohingya – circa 380mila persone – che nel giro di due settimane sono scappate dal Myanmar. Fuggite per la «spropositata reazione» (sono ancora parole dell’Onu) delle forze dell’ordine birmane all’attacco di un gruppo armato rohingya il 25 agosto scorso a diversi posti di polizia.

IL CRESCENDO È INIZIATO con le dichiarazioni dell’inviato speciale per il Myanmar, la docente coreana Yanghee Lee, che di fatto non ha potuto fare la sua inchiesta. Poi, Zeid Ra’ad Al Hussein – Alto commissario per i diritti umani – ha usato senza girarci troppo intorno la locuzione «pulizia etnica». Anzi, una pulizia etnica – ha detto – «da manuale».

 

Aung San Suu Kyi during the Nobel Peace Prize Ceremony, 16th June 2012

 

La posizione critica dell’Onu ha continuato a inasprirsi riflettendo il contegno del governo e soprattutto della sua leader de facto, la Nobel Aung San Suu Kyi. Che prima ha rotto il suo imbarazzante silenzio per denunciare un «iceberg di disinformazione» in quella che ha definito «propaganda». Poi ha deciso di disertare la prossima Assemblea generale Onu, un palco da cui ha già difeso le posizioni del suo governo l’anno scorso (dopo le violenze dell’ottobre 2016) ma dove quest’anno sarebbe oggetto di pesanti accuse, soprattutto dai Paesi musulmani ma anche da molte organizzazioni della società civile: da Human Rights Watch ad Amnesty, da Msf alle varie organizzazioni rohingya o semplicemente attive nel campo dei diritti.

GUTERRES COMUNQUE, nel rivolgersi al governo e ai militari birmani, stava in realtà mandando anche un segnale al Consiglio di sicurezza Onu, riunito per la seconda volta sulla questione rohingya ma dove soprattutto Cina e Russia frenano prese di posizione troppo dure. Il motivo è chiaro: la situazione nel Myanmar è drammatica per i rohingya ma è estremamente pericolosa anche per il governo di Suu Kyi: un governo debole, nonostante i numeri, e ostaggio del vecchio potere militare.

PECHINO, SOPRATTUTTO, non vuole instabilità nei Paesi dove investe. E quanto sia complicata la situazione lo si vede in questi giorni: mentre all’estero il dibattito si allarga (sono state Svezia e Gran Bretagna a chiedere al CdS dell’Onu di riunirsi) in casa le acque sono agitate. Una coalizione di 29 partiti con a capo l’Union Solidarity and Development Party (erede del vecchio governo militare) ha condannato il governo per aver dato ascolto al consiglio della Rakhine Advisory Commission, capeggiata su incarico di Suu Kyi dall’ex segretario Onu Kofi Annan, accusato di «parzialità» dal capo dell’esercito birmano, generale Min Aung Hlaing. La commissione chiede che sia rivista la legge del 1982 sulla nazionalità, legge che ne esclude i rohingya. I partiti non solo usano termini minacciosi ma bollano il rapporto di Annan come opera di «traditori e gruppi stranieri che vogliono distruggere la nazione».

E A DARE UNA MANO a chi sulla questione agita lo spettro dell’islamismo radicale ci si mette anche al Qaeda: in un comunicato reso noto dal sito di intelligence Site i qaedisti accusano il governo del Myanmar di un «trattamento selvaggio» dei fratelli musulmani che deve essere «punito». Minacce di altro tipo dunque ma che alimentano la propaganda dei militari secondo cui esiste un piano che si serve di «terroristi» jihadisti per distruggere il Paese. Il gruppo sotto accusa però, l’Arsa, non ha legami – per quanto si sa – né con al Qaeda né con lo Stato islamico.

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