Samuel Fosso, polaroid di un dandy
Intervista L’identità panafricana ricreata negli autoritratti di una grande mostra parigina
Intervista L’identità panafricana ricreata negli autoritratti di una grande mostra parigina
Posa senza trucco, Samuel Fosso (Kumba, Camerun 1962, vive e lavora tra la Nigeria e la Francia), nei 666 autoritratti che ha realizzato con la polaroid. SIXSIXSIX (2015) è un’opera monumentale che indaga le metamorfosi dell’io, lasciando affiorare una gamma di emozioni che oscillano dalla gioia al dolore, dalla paura alla follia. Acquisita dal Musée du quai Branly – Jacques Chirac (nelle cui collezioni si trovano anche le serie Le rêve den mon grand-père e African Spirits) è un’opera che rappresenta anche il punto d’arrivo della retrospettiva Samuel Fosso, curata da Clothilde Morette alla MEP- Maison Européenne de la Photographie di Parigi (fino al 13 marzo 2022), che il fotografo africano ha voluto dedicare al compianto Okwui Enwezor.
Un percorso cronologico che inizia con le foto di studio a Bangui (lo Studio National il cui motto era «sarete eleganti, belli, raffinati e riconoscibili») dove Fosso iniziò a fotografare a 13 anni. La maggior parte delle foto d’archivio è andata distrutta durante la guerra civile, nel 2013, ma un’intera parete riproduce i ritratti di bambini, famiglie, coppie, amici di cui sono stati ritrovati i negativi in strada, fuori dal suo studio, sparpagliati tra polvere e detriti. L’identità, fin dagli esordi, rimane un tema costante della ricerca di Samuel Fosso, anche quando sconfina nella moda, come nella serie Tati (1997) con Le Chef (celui qui a vendu l’Afrique aux colons) dove interpreta un anticonvenzionale capo villaggio (una foto di grande forza espressiva che è anche la copertina del catalogo della mostra Africa Remix) o in La Femme américaine libérée des années 70, dove rende omaggio alla forza delle donne afroamericane.
Quando nel 2013 sei stato costretto a fuggire a Parigi da Bangui, in seguito alla guerra civile, è come se la vita ti avesse posto di fronte a un déjà-vu. Infatti, eri un bambino di 5 anni quando in Nigeria scoppiò la guerra del Biafra. Come hai vissuto questo nuovo trauma? La serie SIXSIXSIX può essere considerata una forma terapeutica?
Nel dicembre del 2013 ho fatto evacuare in Nigeria mia moglie e i miei figli, mentre io sono rimasto a Bangui finché la guerra non è iniziata seriamente. A quel punto ho cercato il modo per partire per la Francia, dove sono arrivato il 31 dicembre. Dieci giorni dopo ho saputo che la mia casa era stata presa e il mio studio distrutto. Ero distrutto anch’io e per 8 mesi sono caduto in depressione. Non mi muovevo più, mi era presa come una follia e fino all’anno scorso sono andato avanti con gli antidepressivi. SIXSIXSIX è stata la risposta a tutti quegli ostacoli. Avevo deciso che io stesso sarei stato la terapia al mio dolore. L’ho fatto anche per gli altri, volevo incoraggiare le persone a pensare a sé. Certe volte non ci sono medici né medicine che possono risanarci. Bisogna prendere le cose e metterle in equilibrio. In queste foto c’è il mio ritratto quando piango ma anche quando sono felice. Nella vita ci sono sempre momenti buoni e momenti cattivi.
Il difetto fisico con cui sei nato – una semiparalisi – è stato il motivo per cui, quando eri a Kumba nel Camerun orientale, tua madre non voleva che fossi fotografato nei primi anni della tua vita. Hai ricordi della tua «guarigione» e di come l’aver percepito la non accettazione ti abbia portato, anni dopo, all’autorappresentazione come dichiarazione di esistenza?
Abitualmente, in Africa, un bambino si fotografa a 3 mesi e poi a 7, 8 mesi quando inizia a camminare. Ma io a quasi 2 anni non camminavo ed ero paralizzato ai piedi e ad una mano. Dunque, non potevo essere fotografato perché mia madre, come qualunque altra donna africana, si vergognava. Mio padre aveva provato a farmi guarire con le medicine occidentali ma non avevano funzionato, così mi portarono nel villaggio in Nigeria da mio nonno materno Okoro Agwu. Come prima cosa bisognava consultare i guaritori per sapere se la malattia era stata mandata da qualcuno o era naturale. Fecero anche dei sacrifici. Si trattava di una fattura, ma come fare? Mio nonno disse che se fossi rimasto nel villaggio sarei guarito e così è stato. Dopo questa guarigione volevo tornare a Kumba, in Camerun, ma lì sfortunatamente era scoppiata la guerra del Biafra, perciò rimasi bloccato con i miei nonni per 3 anni.
Nel frattempo mia madre morì e dopo anche mio nonno. Alla fine della guerra la vita nel villaggio era difficile, così mio zio – il fratello minore di mia madre – decise di trasferirsi a Bangui, nella Repubblica Centrafricana e di portarmi con sé. Aveva una fabbrica di scarpe dove faceva sandali da donna e mi mise a lavorare lì. Anch’io facevo sandali da donna! Poi aprì un chiosco di bibite e altri prodotti, perciò vendevo anche le bibite. Ma quando, a un certo punto, fu vietato vendere alcolici ricominciai a fare scarpe. Proprio allora vidi lo studio fotografico di un nostro vicino e gli chiesi se poteva insegnarmi il mestiere. Dopo aver chiesto l’autorizzazione a mio zio, cominciai a fotografare e quando imparai presi uno studio per conto mio. Con la pellicola avanzata dai ritratti che facevo ai clienti – per non sprecarla – iniziai a fotografarmi. Volevo far sapere a mia nonna che stavo bene, perciò quando trovavo qualcuno che andava in Nigeria gli chiedevo se poteva portarle le mie foto.
All’inizio della tua carriera di fotografo – avevi 13 anni – tra i modelli che ti hanno ispirato c’era il cantante Prince Nico Mbarga & Rocafil Jazz, in particolare la copertina dell’album Sweet Mother, considerato un manifesto dell’identità postcoloniale dell’Africa Occidentale…
Di Nico Mbarga mi aveva attratto il modo di vestirsi. Mi piaceva tutto ciò che fosse un po’ diverso dagli altri e poi adoravo la sua musica. È lui che ha creato una cumbiamba congolese-ivoriana. Quando uscivano i suoi dischi, i musicisti cambiavano modo di suonare. Mi attiravano la sua musica e i suoi vestiti, quegli stivali con la zeppa… A Bangui comprai della stoffa jeans e mi feci cucire i pantaloni come li portava lui. Volevo somigliargli il più possibile, tanto che in città tutti mi chiamavano Prince Nico Mbarga. Mi accorsi che vestito come lui destavo interesse. Volevo, soprattutto, mostrare ai turisti europei che l’Africa non era solo quella dei villaggi con la povertà e il malessere. L’Africa era in evoluzione!
Dalla serie più recente «Black Pope» (2017), dove indossi i panni di un papa nero, ai leader per i diritti civili della comunità nera fino a Mao Tse-tung. In che modo decostruisci gli stereotipi legati all’identità, andando oltre la «semplice» messinscena?
Ho iniziato il lavoro sullo spirito africano per restituire la memoria e rendere omaggio a tutti quei grandi personaggi africani che hanno lottato per la libertà e i diritti civili dei neri, sia afro-americani che africani. Molti di loro non si trovano neanche nei manuali scolastici, così per far conoscere la nostra storia ho pensato di entrare nei musei interpretandoli. Il sogno del pastore Martin Luther King era che un giorno bianchi e neri avrebbero camminato insieme sullo stesso marciapiede e sarebbero saliti sullo stesso autobus. Et voilà, ora il suo sogno si è avverato. Se non fosse così non sarei seduto insieme a te, perché prima i cani e i neri erano uguali.
Interpretare personaggi legati al tuo mondo personale, come in «Le rêve den mon grand-père» (2003) o «Memoire d’un Ami» (2000), è stato più difficile considerando il coinvolgimento emotivo?
No, non è stato difficile. Quando entro in scena, automaticamente il mio spirito si trasforma, avvicinandosi abbastanza al personaggio a cui mi sono ispirato. Il mio spirito è in lui. Mi muovo come se fossi addormentato o in sogno, a quel punto non mi resta che fare immediatamente gli scatti.
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