Prima di esercitare il mestiere del professore universitario, Luigi Sampietro ha frequentato una buona scuola: quella del «Guerin sportivo» e delle radiocronache di grandi eventi di calcio e pugilato, a cui, dice, «assistetti con l’occhio della mente». Gli articoli di Gianni Brera invece gli insegnarono che «le parole erano più importanti delle immagini». Fu così che decise di fare il «lettore di professione» e condividere con altri – tramite l’insegnamento e la scrittura – i privilegi di quell’esperienza «solitaria» che è il rapporto con un libro. E con giusta ragione, se conveniamo con Vladimir Nabokov su un principio un po’ elitario, e cioè che la «vera scuola è quella del talento». Per venticinque anni, a partire dal giorno del Nobel conferito al suo amico Derek Walcott, sul supplemento domenicale del Sole 24 Ore Sampietro ha espresso le sue idee su che cos’è la letteratura, una materia con i suoi livelli di complessità, ma spesso deviata dalla sua più naturale vocazione da chi ne fa oggetto di studio. Ha lasciato sino ad ora un corpo considerevole di commenti, solo in parte riunito in La passione della letteratura che esce per la «Biblioteca» Aragno (pp. 775, euro 40,00).

Letta con la distanza temporale che, come si sa, non pertiene allo statuto volatile della recensione, nell’insieme questa raccolta non mostra le rughe del tempo, né il postulato che la regge ha perso il lustro. Anzi, oggi più che mai, mentre si va esaurendo anche la bottega del Neostoricismo, utile per tanti versi a rimettere il testo con i piedi per terra, ossia nei suoi contesti culturali, si sente la necessità di riconoscere, come direbbe Harold Bloom, «la saggezza dei libri» nella sua quasi insularità. Dei classici, è ovvio, senza escludere campioni più recenti che promettono di diventare tali, se solo sfiorano quella commistione di sacralità e verità, a cui si concede la «funzione salvifica della letteratura», o la «consolazione» che ne può derivare, o la «passione» con cui si fa leggere, o la passio a cui sottopone il lettore come in un «incontro spirituale». La via indicata è in una lettura «estetica» – nel senso di percettiva –, quella che, assieme alla comprensione di come funziona un testo, restituisce un’illuminazione, una gnosis, passando per un intelligere (intus legere), la facoltà dell’anima di formarsi delle idee.

La letteratura o è sacra o non è

Questione peraltro assai pertinente all’interesse (raro, oggi, purtroppo) di Sampietro per i fondamenti teologici della letteratura e, nello specifico, della letteratura moderna di lingua inglese che, nelle sue rappresentazioni, ha sempre ingaggiato – perché nata dalla Riforma e dal Puritanesimo americano – una dialettica tra l’essere nel mondo e le egemonie metafisiche che lo sovrastano. È in quello spazio che prova a innestarsi il grande racconto. La letteratura, diceva Carlyle, «o è sacra o non è». E non è detto che il sacro debba essere per necessità religioso. Chi legge un libro, ci viene suggerito, «lo misura sulla base della propria umanità».

Divisa in quattro parti (Scrittori e critici, La tradizione dei classici, Modernisti e moderni, I contemporanei) questa lettura della letteratura procede in modo organico, iniziando con lo scrollarsi di dosso superfetazioni teoriche di troppo. Si libera via via il campo dai «burocrati con tanto di liste di proscrizione» e si sceglie una buona compagnia (Bloom, Steiner, Borges, Yehoshua) per l’entrata in scena del libro, che è – guarda caso! – il primo della «tradizione» di cui parliamo: Il servo arbitrio di Lutero, un ossimoro (anti-erasmiano) qui problematicamente decodificato, in cui trova origine la conflittualità – il dramma: la scelta tra il bene il male – di cui si investe molta della parte che segue, nutrita dalla Bibbia voluta da Giacomo I (la Authorized Version del 1611) e dal Paradiso perduto di Milton, il poema che insegna come «alla verità si può arrivare attraverso l’errore». Una prima mediazione, tanto per scuotere, per esempio, il calvinismo americano, fino al momento del confronto con il nodo «ragione-religione» di Thomas Paine e l’illuminismo dei padri della Costituzione (Jefferson e Adams). Lo scardinamento riformista inglese, che a casa sua si smemora via via in una più o meno stabilizzante sovranità anglicana (Spenser, Shakespeare, Pope, ecc.), per parodiarsi poi nella pruderie vittoriana, emigra, con i Padri Pellegrini (dei quali la madrepatria si libera volentieri), negli enigmi di Melville, Hawthorne, Emily Dickinson, divisi, dopo due secoli di teocrazia puritana, fra ortodossia e dialettica inquisitrice sui limiti «della libertà cristiana» e sullo statuto, e la natura ontologica, del Male.

Un’esca per discorsi a monte

Sia ben chiaro: non tutto viene (o va) catturato in questa rete, né qui si può dar conto della vastità del panorama e delle inerenze concettuali che si dispiegano. Il libro da recensire per Sampietro è spesso solo un’esca per intavolare discorsi a monte, prendendola in apparenza alla larga, e non di rado con frizzo di spirito, al fine di puntare al cuore di questioni di base. Questioni che si colorano di sfumature nel Novecento, il secolo in cui la tavolozza si fa, sin dal Modernismo, più variopinta anche nell’esporre le difficoltà della mente moderna «a interiorizzare l’ortodossia cristiana» (vedi Eliot), nonostante – e paradossalmente – nei suoi sperimentalismi quel Modernismo tanto spesso scriva nella lingua della Bibbia (Hemingway, Pound, Faulkner, lo stesso Eliot). Riconosciuta la «diagnosi profetica» di Conrad sulla difficoltà di cogliere «nel libro del creato» il «legame possibile tra i fatti e il resto della realtà», il Novecento gira pagina senza dimenticare le Scritture, aprendosi ad altri innesti (basti quello ebraico seguito da Sampietro: Bellow, Henry e Philip Roth, Malamud) su un’eredità culturale Wasp ancora marmorea nei suoi basamenti. Con qualche eccezione (Beckett, Graham Green), la leadership è incontestabilmente americana, e poi postcoloniale, circoscritta, quest’ultima, a tre fuoriclasse: Derek Walcott, Alice Munro e V. S. Naipaul.

Anche in questa spaziatura (più laica: diciamo!), resta lo sguardo puntato sul problema «morale» e sulla «saggezza» e la verità del testo, intesa almeno come «verità effettuale», diretta a cogliere «quel rapporto con il mondo che si chiama significato» (Conrad); o a ricostruire epici «teatri della coscienza» in cui «il passato non è morto: non è nemmeno passato» (lo diceva Faulkner, ma vale anche per altri); o alla «salvezza di ciò che fa di un uomo e di una donna un individuo: la sua identità profonda. Il suo Self o Sé» (Bellow); o a indagare i drammi più quotidiani degli anni Cinquanta, vissuti da una middle class suburbana «a cui è stato insegnato di ascoltare le voci di dentro, e il cui unico insuperabile tormento è sempre quello di avere un rapporto falso con il mondo»; o, ancora, mentre si va verso la fine del millennio, a interrogarsi sul modo in cui «ci si orienta in un universo governato dal Caso» (Philip Roth) e, quindi, a rimettere in campo la Teodicea, la predestinazione e l’«implacabile mostro che impersona la parte del destino» (Cormac McCarthy). Il percorso sembra riannodarsi alle origini, in cui ci siamo tutti.

«Non è un trattato per specialisti», Sampietro scrive quasi in apertura della sua Passione della letteratura, «ma si rivolge agli accoliti di una philia che, come avviene per i tifosi di una disciplina sportiva, per essere tali e poter leggere con profitto il memoir di un vecchio cronista devono almeno conoscere i nomi dei campioni di cui si parla». Ma anche se c’è qualcuno che quei nomi non li conosce, non ha alcuna importanza, l’essenziale è appassionarsi al gioco, quando a condurlo sono i fuoriclasse.