Samara Hersch, tutto quello che avreste voluto chiedere
Festival Fuori! L'artista australiana racconta il suo progetto «Body of Knowledge»
Festival Fuori! L'artista australiana racconta il suo progetto «Body of Knowledge»
Anna ha 14 anni e come i suoi coetanei si pone molte domande e ha delle fragilità in questa strana età che è l’adolescenza, quando il corpo si trasforma e la bambina lascia il posto a una giovane adulta. Fra smarrimenti e incertezze dalla sua camera rivolge alcune questioni a un adulto fra il pubblico, è una conversazione telefonica privata, a due, che si svolge nel delicato lavoro Body of Knowledge pensato dall’artista e regista australiana Samara Hersch. Il progetto, nel cartellone del Festival Fuori! realizzato da Emilia Romagna Teatro e curato da Silvia Bottiroli, che mette gli adolescenti al centro. Dà loro la parola negli spazi della città anche come atto politico, riflettendo sul tema del corpo, dell’affettività e del sesso. Il telefono scherma l’imbarazzo, protagonista è l’ascolto verso una generazione a cui non si dà abbastanza voce e attenzione. Anna vuole sapere di educazione sessuale e amicizia. È timida, con i suoi compagni non parla di sesso, sentimenti e affetti. Dopo Anna parla Chiara che ha diciotto anni e molti dubbi sul futuro. Terminate le conversazioni fra pubblico e giovani, una cassa amplifica le voci dei nove partecipanti che citano alcune parole degli adulti che li hanno colpiti. Seduti in circolo dentro una tenda gli adulti commentano alcuni temi emersi dopo che i ragazzi hanno chiuso il collegamento. Per saperne di più abbiamo rivolto alcune domande a Samara Hersch.
Qual è stato il processo di Body of Knowledge?
È il risultato di workshop svolti con gli adolescenti su ciò di cui volevano discutere con gli adulti. Al centro la questione del corpo politico, i temi su cui si interrogano, come il significato di essere adulto. Abbiamo formulato insieme le domande in grado di creare una conversazione, è stata l’opportunità per parlare con gli adulti e mettere a fuoco quello che volevano sapere, ma anche per costruire la fiducia, avere il coraggio di chiedere per dare un nome alle cose di cui si vergognano. Attraverso il gruppo hanno realizzato di non essere soli e gli unici a porsi questi interrogativi, elemento importante per supportarsi e capirsi. Per diverse settimane abbiamo lavorato insieme anche su cosa poter insegnare ai più grandi. È stata un’esperienza speciale, ho lavorato con le attrici Donatella Allegro, Nico Guerzoni e Giulia Quadrelli e ho condiviso la metodologia anche con l’artista Muna Mussie per costruire una relazione con i giovani, mi hanno facilitato il processo anche per capire meglio il contesto e cosa significhi essere un teenager qui, crescere in questo luogo, quali siano le pressioni sociali e culturali da affrontare, diverse rispetto ai giovani australiani. Mentre ero nei Paesi Bassi abbiamo lavorato da remoto. In generale è emersa molta frustrazione perché gli adulti non condividono le loro emozioni, non si aprono e non si mostrano più vulnerabili.
Ci sono forti pressioni sul corpo per via dei social media che creano grandi aspettative sulla propria immagine e la sua rappresentazione. Come fare i conti con questo? Cosa fare dopo la scuola, seguire i propri sogni o scegliere qualcosa di pratico? Le domande riguardano anche il clima e i problemi del mondo che hanno ereditato. Su cosa ci si aspetta da loro e come lavorare insieme agli adulti. Un altro aspetto interessante è l’educazione e l’istruzione che si riceve fuori da scuola, come s’impara a vivere nel mondo, chi insegna loro tutte le abilità che ci si aspetta che conoscano. Anche imparare a gestire le relazioni d’amicizia, sentimentali e familiari, la complessità di tutto questo non si impara in classe.
La scelta dell’anonimato permette loro di non provare vergogna?
È una strategia. Li incoraggiamo anche se non si tratta di una sessione psicologica o di counseling, non sono qui per ricevere consigli, ma per avere nuove prospettive, ascoltare altri punti di vista, spesso nella loro vita i soli adulti con cui parlano sono genitori, zii, insegnanti, non hanno molte altre possibilità di incontrare persone e fidarsi. Proteggiamo le loro identità, non si vedono mai, se vogliono usano falsi nomi, non si incontrano con le persone che conoscono fra il pubblico, parlano con qualcuno che non rincontreranno più e se sono a disagio possono interrompere la chiamata in ogni momento.
La sottrazione del corpo è utile anche per evitare il giudizio?
Esattamente, è per far sentire loro questa libertà. C’è molto potere nel solo ascolto. La presenza dei ragazzi sarebbe un’oggettivazione dei corpi e di come li guardiamo, così invece creiamo un canale dove ci si ascolta e non si sa chi sia l’interlocutore.
In una società in cui i corpi sono costantemente esposti, metterli al riparo è in controtendenza.
Mi è venuto in mente anni fa quando ripensavo a me stessa da teenager. Sono cresciuta in Australia da una famiglia di migranti ebrei dell’est Europa, ho frequentato una scuola ebraica molto conservatrice dove c’era poca educazione sessuale, il modo in cui si imparavano cose sul proprio corpo era limitato. Da teenager ero confusa nel vedere i cambiamenti del mio fisico e nel non avere nessuna conoscenza su come gestirlo e occuparmene. È la motivazione che mi ha spinta a chiedermi come impariamo le cose sui nostri corpi nella società e come i giovani possano farsi e fare domande senza vergogna e giudizio. Diventare adulti è un processo, c’è una negoziazione continua con il corpo e come esso si relaziona con gli altri. Aver avuto una diversa educazione è stata la motivazione perché il teatro fosse un luogo in cui praticare qualcosa di diverso, come uno spazio di produzione di conoscenza e trasformazione.
Quando ha debuttato Body of Knowledge e in quali paesi è stato realizzato?
È iniziato nel 2017 quando studiavo in Olanda, poi l’ho portato in Australia, Germania, Svizzera, Giappone, Ungheria, Belgio, Singapore, Italia. La pandemia ha cambiato molte delle domande e delle relazioni fra i corpi, tutto ha riguardato il corpo e la paura degli altri, si è dovuto reimparare a connettersi. Ora i ragazzi ne parlano meno, ma ha inciso sul modo in cui si vedono. L’aspetto più importante del progetto è la conoscenza incarnata, diversa dalle informazioni che si trovano su internet. Il corpo vive esperienze e colleziona conoscenza, chiunque può rispondere alle domande degli adolescenti, ci si può connettere ai loro sentimenti di insicurezza e impotenza.
Che valore politico assume il corpo?
È uno spazio fortemente politicizzato. Può essere privilegiato oppure no, controllato, giudicato, soggetto a pressioni sociali, sessualizzato. Inoltre chiama in causa il genere, la razza, la disabilità. La pandemia ha rivelato come le vite siano in stretta relazione e quali conseguenze ci possano essere nel rapporto fra i corpi. Un corpo agisce e l’azione è politica. Spesso si subiscono le politiche dei governi, i corpi sono condizionati e strumentalizzati. Le leggi omofobe e sull’aborto sono strumenti di controllo. Oggi non si parla più solo in termini di uomini e donne, ma di persone non binarie, trans, questa è una delle cose che le nuove generazioni possono insegnare alle precedenti, che le possibilità di esplorare il genere sono più ampie, ci sono più diritti, si sono fatti molti passi avanti. Il desiderio più importante per questo progetto è che non si pensi a chi si è in modo definitivo, ma fluido, in continuo cambiamento. Anche l’identità lo è, non si è mai una cosa sola, siamo molto complessi, siamo moltitudini a cui è permesso di cambiare.
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