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Salvo, eccitazione cromatica, pratica concettuale

Salvo, eccitazione cromatica, pratica concettualeSalvo (Salvatore Mangione), «Al bar Sport», 1981, Berlino, collezione privata

Pinacoteca Agnelli, a Torino Il suo problema fu come conciliare, nel pieno degli anni settanta, l’idea disincarnata del fare arte con l’amore per la pittura: ne derivò una tavolozza artificiale, un’archeologia del futuro

Pubblicato 3 giorni faEdizione del 10 novembre 2024

Voleva arrivare in tempo per vedere il tramonto e per questo aveva tamponato la macchina, una Fiat 126, che lo precedeva. Da questo aneddoto minimo prende spunto la mostra che la Pinacoteca Agnelli dedica a Salvo (a cura di Sarah Cosulich & Lucrezia Calabrò Visconti, in collaborazione con l’Archivio Salvo, fino al 25 maggio). In realtà è difficile immaginare un artista come lui andar di fretta o rincorrere il tempo. Più immediato riconoscerne il carattere in quella foto scattata nel 1974 da Gianni Colombo nella sala del Wallraf-Richartz Museum di Colonia. Salvo (al secolo Salvatore Mangione) era stato invitato a partecipare alla mostra Projekt ’74. Aspekte internationaler Kunst am Anfang der 70er Jahre, e aveva chiesto di poter esporre al museo invece che alla Kunsthalle come tutti gli altri artisti. Nella foto lo si vede seduto di spalle, di fronte alle opere di arte antica che aveva accuratamente scelto e prelevato dalla collezione per accompagnare il suo grande dipinto con San Martino e il povero, appeso sulla sinistra. Ha lo sguardo fisso sulla storia dell’arte, all’interno di uno spazio chiuso dove il tempo certamente non corre ma appare come sospeso.

La mostra torinese prende il via da una situazione analoga, anche se lo spazio, angusto ed esposto sull’andarivieni delle scale, non permette di sperimentare quella dimensione di appartatezza. Nella prima saletta viene proposta una selezione delle fotografie presentate alla John Weber Gallery di New York del 1973, dove l’artista soprapponeva la propria figura a immagini catturate dalla stampa periodica, ciclo che culmina con l’iconico Autoritratto (come Raffaello). Nella saletta a fianco ci sono due grandi opere, presentate sempre in quel 1973, alla Galleria Toselli di Milano: San Giorgio e il drago e San Michele sconfigge Satana, due d’après su scala ingigantita rispettivamente da Cosmé Tura e Raffaello. San Giorgio e San Michele, come anche il San Martino di Colonia, hanno le sembianze dello stesso Salvo, a quell’epoca ventiseienne. L’inizio è dunque all’insegna di un dichiarato corto circuito, che gli permette di far subito chiarezza sulle sue intenzioni: essere artista concettuale senza rinunciare alla pratica pittorica, anzi esserlo in virtù di quella. Come ha scritto Elena Volpato nella monografia appena pubblicata che raccoglie opere e scritti (Io sono Salvo, Nero edizioni), l’artista si muove nella «convinzione che la pittura offra dimora al pensiero quanto alla vista e al sentimento, e che non si dia un vedere senza sapere, senza pensare e ricordare. La pittura per lui è stata un esercizio più concettuale di quanto non lo fossero stati i suoi fotomontaggi, le lapidi e le performance».

Con quel suo calarsi nelle fattezze dei santi vuole che gli si riconosca il coraggio di avere intrapreso una strada rischiosa in anni in cui (parole sue) «per essere à la page, un giovane doveva esporre in gallerie totalmente bianche in cui comparivano installazioni dove l’uso del colore era bandito». Lui invece voleva essere pittore. E pittore lo è stato e senza riserve per i lunghi anni che hanno seguito la stagione strettamente concettuale, contrassegnata in particolare dal ciclo delle Lapidi e dalla serie delle Italie, rappresentate nella mostra torinese.

Tra le opere di cui Salvo si era attorniato in quella foto del 1974 al Wallraf-Richartz Museum, due in particolare possono essere lette come dichiarazioni programmatiche. Aveva scelto un tavola di Simone Martini, una Madonna con il Bambino della collezione, perché nel lavoro del grande pittore senese vedeva «la capacità di un’astrazione suprema fatta con gli elementi più suggestivi della realtà» (Elena Volpato). C’era poi un piccolo trittico di Stefan Lochner, capofila della Scuola di Colonia, databile 1445-’50, che nello scomparto centrale presentava una Vergine con il Bambino all’interno di un hortus conclusus cintato. Anche Salvo lavora in uno spazio chiuso e protetto, quello dello studio, dove mette a fuoco la sua «pittura di serra», com’è stata definita. Questo nonostante il soggetto dominante se non esclusivo dei suoi quadri siano i paesaggi, per la gran parte urbani, ricombinati sulla tela come montaggi di geometrie elementari, di cui è chiaramente debitore al nume De Chirico, e quasi giocose.

Tutto il mondo che Salvo ha attraversato nei suoi viaggi, compresa naturalmente la Sicilia dov’era nato, converge nello studio per essere filtrato da una pittura che ha sempre come epicentro la luce e l’eccitazione cromatica che determina. Può essere la luce notturna dei lampioni o della luna, come quella dei tramonti o del pieno sole. Comunque e sempre luce resa artificiale, al riparo da ogni concessione naturalistica.
La produzione di Salvo procede a raffica, aggredendo un singolo soggetto, che, «quando viene portato ad una massima tensione, ad una estrema libertà coloristica, ma proprio al suo culmine, muore e io mi devo reinventare qualcos’altro», come lui stesso aveva spiegato. Ne deriva che ogni quadro nasce come tessera di un insieme che procede cercando un suo acme. In mostra c’è una parete che restituisce appieno questa natura multipla della pittura di Salvo: è quella dedicata alla galassia delle Fabbriche dipinte nel 1987, una tempesta gialla di soli e di ciminiere che nel moltiplicarsi trovano il loro felice assetto. Nella stessa sala è esposto un gioiello solitario che era stato di proprietà di Giuseppe Pontiggia, grande amico dell’artista. È un tramonto rosso di cui Salvo parla nella lettera di accompagnamento al quadro, lettera che è esposta vicina al quadro. «Tramonti così si vedono di primo autunno o fine estate (io ne ho visti solo tre negli ultimi 15 anni)», scrive con il puntiglio del cacciatore di cieli al crepuscolo.

Ma poi si sfila dal rapporto diretto con quello che ha cercato, visto e ammirato. Resta l’incantesimo prodotto dal tramonto, molto più che l’immagine impressa sulla retina. È a partire da quell’incantesimo che, una volta rientrato nello spazio protetto dello studio, si mette al lavoro, per ricreare l’evocazione favolosa di ciò che ha visto. Anche il rosso è frutto di un processo di reinvenzione. «È un effetto che inseguivo da 10 anni (davvero) e che soltanto negli ultimi mesi ho ottenuto», scrive sempre in quella lettera: lo inseguiva prima ancora di aver avuto la visione del tramonto.

La pittura, per Salvo – aveva sottolineato Francesca Alinovi, con l’acutezza che la contraddistingueva, in un testo del 1981 – è un «mezzo agile e leggero per veleggiare sulle spiagge della storia e della memoria, affermando un’inattualità attuale, un futuro archeologico». Il tutto con quell’ingordigia propria dei bambini, che inseguono gli incantesimi e non finirebbero mai di replicarli.

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