Ormai è un copione fisso: il ministro dell’Economia e i due vicepremier dicono cose opposte, se del caso litigano di brutta come nel braccio di ferro sui vertici Cdp, poi distribuiscono sorrisoni a uso propaganda, giurano che si è trattato «di un malinteso» e che tutto va benone. Un secondo dopo ricominciano come prima mentre il sedicente capo del governo fa finta di non esistere. Va avanti così da settimane e la messa in scena si è ripetuta ieri.
Dal G20 di Buenos Aires, domenica, Tria aveva rassicurato Europa e mercati: programma di governo sì, certo, però «ovviamente in quei limiti di bilancio necessari per conservare la fiducia dei mercati ed evitare l’instabilità». Tradotto significa che del suddetto programma si potrà fare poco o niente. Il ministro infatti conferma: «Si è chiarito che di fronte a un rallentamento della crescita non si faranno manovre pro-cicliche». Insomma, dato che la crescita rallenterà di certissimo le attese riforme dovranno ancor più segnare il passo. Infine Tria esclude una manovra correttiva, il che però significa puntare su una ulteriore flessibilità che sarà concessa solo se nella legge di bilancio non ci saranno passi sostanziali sgraditi a Bruxelles.

Nulla di nuovo. È la classica linea della prudenza seguita per anni dal predecessore di Tria, l’ex ministro Pier Carlo Padoan. Solo che di buon mattino i due vicepremier e il responsabile economico della Lega Borghi dicono il contrario esatto. «Nessun contrasto con Tria», giura Di Maio. Infatti «il reddito di cittadinanza è la priorità e Tria lo sa. Ci sono impegni con i nostri elettori e la Ue deve tenerlo presente». Oddio, e come si fa a coniugare l’impegno del pentastellato con le garanzie in senso opposto del ministro? Facile: «Vedo tutti i margini che ci dobbiamo conquistare dalla Ue e che pretendiamo per rimettere a posto un’Italia con tre milioni di persone che non riescono a mangiare. Non chiediamo la luna ma lo stesso trattamento che hanno avuto altri stati. Mi aspetto una legge di bilancio coraggiosa». È la stessa rotta indicata da via XX settembre? No. È la rotta opposta. Mentre Tria rassicura l’Europa, il pluriministro promette lotta dura e senza paura.

Salvini non è da meno: «Nella manovra d’autunno daremo le prime e significative risposte sulla riduzione delle tasse. Ci hanno eletto per cambiare e cercheremo di cambiare anche alcuni numeri scelti a tavolino da Bruxelles». Oltre tagliare le tasse Salvini mira a innalzare le pensioni minime. Magari non subito, non nella legge di bilancio, ma subito dopo. Qui il miraggio è trovare i fondi salassando ogni spesa per i migranti. Il ministro avrebbe in mente una sorta di «decreto sicurezza» da varare in settembre concentrato sull’immigrazione, col doppio obiettivo di proseguire nella sua crociata xenofoba, che stando ai sondaggi continua a garantire alti dividendi elettorali, e di fare cassa per l’innalzamento delle pensioni minime.

Ma una tattica simile non può certo bastare per coprire i costi anche solo di un avvio non puramente nominale della Flat Tax e del Reddito di cittadinanza.
L’equilibrio tra i due soci di maggioranza non permette di partire con una delle due riforme posticipando l’altra, perché i cavalli di battaglia dei due partiti devono per forza procedere appaiati. Senza contare l’intervento sulla legge Fornero, particolarmente insidioso perché lì è impossibile cavarsela assicurando che il treno è partito e proprio quella riforma è la più invisa alla Bce.
I nodi arriveranno al pettine dopo la pausa di agosto, con la legge di bilancio. Al momento il governo ha altre urgenze: far passare il decreto Dignità la settimana prossima, e non sarà facile senza la fiducia, e bloccare la fusione tra Ferrovie e Anas, come hanno di fatto annunciato ieri di voler fare sia Di Maio («Operazione sbagliata che si deve fermare») che Salvini («Chi fa i treni deve fare i treni e chi si occupa di strade deve fare le strade»).