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Salvatore Settis, maestri e amici nel prisma

Salvatore Settis, maestri e amici nel prismaIl Palazzo della Carovana in piazza dei Cavalieri a Pisa, sede principale della Scuola Normale Superiore di Pisa

Le memorie dell’archeologo 57 ritratti di studiosi, compagni, artisti e scrittori che hanno segnato la vita (intellettuale e civile) di Salvatore Settis: «Registro delle assenze», Salani

Pubblicato 6 mesi faEdizione del 5 maggio 2024

Nella galleria di quadri allestita da Salvatore Settis i ritratti sono disposti in tre sale, e ognuna raggruppa, come in un ordinato museo, una serie di opere che evoca un tempo, un’atmosfera, un rapporto. Non sono osservate tanto le scansioni cronologiche quanto affinità tematiche, profondità di affetti, nostalgia di assenze. La visita guidata dall’autore nel suo Registro delle assenze Profili e paesaggi (Salani Editore, pp. 375, € 20,00) andrebbe seguita con scrupolosa attenzione, ma è inevitabile soffermarsi su volti più familiari o conosciuti, senza che questo significhi trascuratezza per gli altri.

Riferire di cinquantasette personalità fissate in momenti alti non è uno scherzo, anche se le pagine da assaporare sono scritte con la calibrata, talvolta solenne, chiarezza abituale in uno stile da sermo nobilis, teso a rilevare, evitando fastidiosi patetismi, qualità memorabili o devota riconoscenza. Si tratta di testi monografici pronunciati sovente per commemorare o festeggiare, e dell’oralità conservano ritmi e cadenze. Non sono escluse prove che risultano dal montaggio di brani tratti da articoli di giornale o da saggi di riviste, ma non si avvertono dislivelli e ripetizioni. Il docufilm è riuscito. Il regista sfoggia un abile mestiere. L’itinerario non si risolve neppure in una sorta di autobiografia indiretta, quasi che i dipinti riflettessero più i sentimenti di chi scrive che una loro autonomia.

La prima sala è dedicata ai maestri che hanno contribuito in termini determinanti alla formazione dello studioso. Arsenio Frugoni (1914-1970) è il primo incontro. Teneva i suo seminari di storia medievale nell’angusta stanzetta in penombra, foderata di libri e di repertori, al pianoterra di Palazzo dei Cavalieri, sede della Normale di Pisa. Alla parete sul fondo il ritratto di un Giorgio Pasquali scapigliato, dalle parti di Santa Trinita, in una frequentatissima Firenze.

A Settis da ogni esperienza piace estrarre un quid che insegni il nodo permanente di un metodo attentamente appreso e successivamente sviluppato. Del pacato dire di Frugoni è restato inciso il richiamo all’uso delle fonti. Quando si occupava di Arnaldo da Brescia, oggetto di una sua monografia-capolavoro, le fonti che consentivano di ricostruirne biografia e pensiero dovevano essere studiate con aderenza assoluta alle loro organicità. Si doveva capirne cultura e artifici, veridicità e divagazioni letterarie. Se si individuava una dotta citazione o, magari, la trascrizione di un verso, era la riprova che si era in presenza di un innesto utile a penetrare la sensibilità dell’autore, ma non attribuibile al personaggio da resuscitare. Forzature per render plausibile il racconto dovevano essere evitate come la peste. E di tanto in tanto una domanda pioveva addosso d’improvviso a verificare se seguivi davvero il discorso o eri assorto in tue curiosità.

Salvatore Settis

Chi avrebbe immaginato che avevi a che fare con il coraggioso protagonista di un pressoché certo «doppio gioco» a favore della Resistenza cristiana combattuta per le colline attorno al Garda, verso Solto – vi risiedeva con la moglie Pia e la figlia Chiara – facendo la spola con Gargnano, dove erano installati Mussolini e un comando della Wehrmacht negli ultimi drammatici mesi della Repubblica di Salò e della feroce guerra civile? L’eredità di un antifascismo attivo era ancora nell’aria in quella Normale, dove affluivano da tutta Italia giovani che finivano per comporre una piccola nazione, fatta di regionalità e inflessioni linguistiche ben riconoscibili. Salvatore Settis, calabrese, proveniva dalla Magna Grecia. Anche dal fisico indovinavi subito origini e propensioni. Tra i maestri del registro sopravvissuto sfilano i nomi di docenti di papirologia, come Vittorio Bartoletti (1912-1967), il paleografo Augusto Campana (1906-1995), Silvio Ferri (1890-1978), la lista è lunghissima.

Trabocca la riconoscenza nei confronti di Arnaldo Momigliano (1908-1987): cacciato dalla cattedra di Storia antica perché ebreo, dopo peregrinazioni tra Londra e Chicago, riprese nel 1964 l’insegnamento italiano: senza anticipare logiche globalizzanti metteva a confronto culture tra loro remote, marcando la differenza dei contesti: «ben pochi seppero farlo quanto e come lui». Ogni anno in Normale un suo seminario di qualche giorno dischiudeva innovative piste e ipotesi. In un suo studio si legge un motto perentorio: «la storia è una re-interpretazione del passato che porta a conclusioni sul presente». Era certo condiviso da Ranuccio Bianchi Bandinelli (1900-1975), un archeologo comunista che si proclamava provocatoriamente curioso del futuro.

Uno dei suoi pezzi forti fu la Colonna Traiana, simbolo quasi dell’opzione politica per la produzione nella quale la tensione etica si accompagnava al vigore scultoreo. Nel fregio a spirale compare un’umanità travolta dalla violenza ma guardata con simpatia per i vinti: «L’artista – è l’ammonimento che se ne coglie – deve sapersi opporre anche al governo che gli dà lavoro». Inciso autobiografico? L’urgenza del presente assillava anche il tetragono storicismo di chi fin da giovane si era rifiutato di abbracciare l’archeologia quale campo di romanzesche meraviglie, alla C.W. Ceram, e infine la praticò per ricostruire le fatiche del quotidiano, le sofferenze di ruoli obbligati che di mirabolante non avevano nulla. Erano i prodromi di svolgimenti che sarebbero sfociati nei progetti di Andrea Carandini o nella trascinante energia operativa di Riccardo Francovich (1964-2007). Etica e filologia si tenevano strette: virtù complementari.

Pure il restauro del patrimonio avrebbe dovuto obbedire non solo a riconoscere e recuperare il passato, ma a prevenire deperimenti invisibili e disastri improvvisi. Sintomatiche al riguardo le pagine dedicate a Giovanni Urbani (1925-1994), alla testa dell’Istituto Centrale del Restauro dal 1973. Le direttrici da seguire erano già state dettate da Cesare Brandi. Non occorreva una nuova teoria, ma l’estensione a politiche preventive, secondo un’antiveggente gestione ecologica. Ricordare significa ripensarsi, tentare di trarre un bilancio di quanto si è stati capaci di combinare sulla spinta di sconfitte subite o il pungolo di interrogativi aperti. Così aggirarsi in un panorama personalizzato e finalizzato diventa anche, in controluce, ricco di spunti decisivi nella crescita scientifica di un rigoglioso aggiornamento di metodi e acquisizioni.

Il secondo tratto della Galleria è riservato ai compagni di strada. Si avverte anche qui l’aria marina di Pisa. Dove Settis approdò da Rosarno e l’adottò come città gemellare. Entrò in Normale nel 1959 e l’abitò per l’intero suo curriculum divenendone direttore per oltre un decennio, fino al 2010. Fu la fase di un’intensa trasformazione della Scuola: da fabbrica di talenti con la missione pedagogica di formare gli insegnanti di un’Italia da unificare a sede di eccellenze e sistematici scambi pre-industriali: meno modello Humboldt e più competizione di stampo-angloamericano, badando però a non tradire la cifra originaria. Grinta manageriale e ingresso spalancato alle nuove tecnologie. Qualcuno storse la bocca. I quadri appesi alle pareti ignorano le tensioni di animati, accesi confronti. Prende il sopravvento un moto che riconduce ai legami venati di dolente, non evaporata, amicizia. Ecco Vincenzo Di Benedetto (1934-2023), da Saracena. E fu Fraenkel a elogiarlo come esempio dell’«inclinazione naturale dei calabresi verso la filologia».

Ingobbito su Euripide, in riva d’Arno si sentiva uno sradicato. Legatissimo a Sebastiano Timpanaro, che donava peripatetiche lezioni con suprema generosità, lo scontroso Vincenzo era pervaso da una passionaccia politica militante e Settis rammenta di quando lo accompagnava, da autista, in minuscole sezioni di provincia del neonato ed effimero Psiup. Un suo celebre pamphlet, Contro le mistificazioni (1981), attesta la distanza tra profondità del sapere e (necessarie) illusioni della battagliera sinistra. Tra quanti giunsero perfino a sedere sugli scranni governativi appare un baldanzoso bolzanino, l’italianista Umberto Carpi (1941-2013). Enorme la distanza che lo separava da Settis, eppure la comunanza degli studi faceva il miracolo, e affratellava il pugnace estremista al saggio mediatore.

Nemmeno il fantasma di una donna, si eccepirà. Vuoto causato da uno scompenso effettivo o sincero dato autobiografico? Eccezioni da non tralasciare e nient’affatto marginali sono Paola Barocchi (1927-2016) e Maria Monica Donato (1959-2014). La Barocchi fondò un Centro di ricerche informatiche per i beni culturali che «segnò il vero ingresso dell’informatica in Normale». E la fragile quanto tenace Monica connesse l’interpretazione della parte figurativa di grandi cicli di affreschi a tema civile alle loro fonti classiche e alla letteratura che vi era inscritta, considerata spesso solo aggiuntiva dalla storiografia tradizionale. Pertanto il libro di Settis diventa anche una sintesi con nomi e cognomi del progredire di impostazioni còlte al loro sorgere.

Da ultimo sosto davanti a Francesco Orlando (1934-2010), palermitano. Entrò in Normale venticinquenne, nel 1959, ammesso al corso di perfezionamento di Lettere. Nessuno si sarebbe immaginato che quel magro signorino dalla voce timida e dal fare impacciato, sarebbe diventato l’autore di una teoria freudiana della letteratura e di vastissimi scavi nel paesaggio europeo. Aveva avuto a maestro Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Settis rievoca la lettura integrale del Ricordo di Lampedusa che recitò – in una serata del ’63 – per pochi amici in omaggio a un amato «aristocratico dilettantismo». Quando, nel ’76, andò a fargli visita a Venezia, dove Orlando teneva cattedra a Ca’ Foscari, si accorse che sotto vetro stava in bella evidenza la mappa di una città: era la pianta di Pisa, «quasi vi abitasse ancora».

Non residua lo spazio per dare una scorsa alla terza sezione dell’imponente galleria, nella quale si espone, a chiusa, fotografie, allestimenti pop, disegni di fuggevoli incontri. Alberto Arbasino a Los Angeles immette un tocco di mondano cosmopolitismo, non estraneo ai gusti di chi non disdegna vagare nell’eccitante museografia del Novecento. Parecchi sono gli assenti di questo soggettivo dizionario. Qualcuno, magari, avrebbe avuto diritto almeno a uno schizzo, a una scherzosa caricatura. La memoria, volere o no, seleziona e omette. Se non messaggi degni di un’orgogliosa bibliografia, di alcuni sarà forse serbato in mente l’accento di una maliziosa boutade o l’appartata mestizia di un addio. Verba manent.

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