Bisogna immaginare che nell’estate del ’63, l’anno apicale del Boom ovvero Miracolo economico, decine di migliaia di automobili circolano ogni giorno nel centro di Roma ma si parcheggia normalmente ovunque, non esclusa Piazza del Popolo. Pochi metri disegnano il triangolo dove è possibile sorprendere la vita quotidiana del ceto intellettuale e pedagogico, per lo più giornalisti e cinematografari, tra i caffe «Rosati» e «Canova» (in cui amano sostare fino a tarda notte i giornalisti del Mondo e dell’Espresso fra cui Sandro De Feo, Ercole Patti, Ennio Flaiano e, intabarrato anche a Ferragosto, il poeta Vincenzo Cardarelli), la libreria Rossetti in via Veneto e un locale in via della Croce, l’antica Fiaschetteria Beltrame denominata più alla spiccia «da Cesaretto». Lì, dove si incrociano Fellini, Moravia o Gore Vidal siede a un angolo per due volte al giorno uno degli habitué che in quanto tali hanno diritto a un tovagliolo personale. Costui è un quarantenne solitario e laconico, scuro come soltanto i meridionali saraceni, un uomo dagli occhi penetranti e liquidi che però tendono a surrogare la facoltà della parola. Egli è un grande e assorto fumatore, un giornalista che lavora da free lance per l’Espresso e per il giornale radio Rai firmando, spesso con pseudonimo, articoli sportivi e reportage decisamente originali come quello sulla banda musicale di Presicce, il piccolo comune del Salento, pochi chilometri dal mare, dove è nato esattamente il 10 agosto del 1923.

SI CHIAMA Salvatore Bruno, per gli amici da sempre Totò, e di lui si sa soltanto che ha un carattere spinoso, che seduce le donne con disarmante regolarità ma che la sua passione esclusiva va al gioco del calcio e anzi alla Juventus. Poco si sa anche del suo passato se non che da ragazzo ha fatto la fuitina con un’adolescente del paese ed è dovuto andarsene in un collegio di Lecce, che ha studiato a Firenze con Giuseppe De Robertis senza mai laurearsi, che è stato partigiano in Toscana e che infine, prima di trasferirsi a Roma, ha lavorato al Nuovo Corriere di Romano Bilenchi, una testata comunista ma fieramente antistalinista. Di lui uomo ruvido, di umori aspri e imprevedibili, uno degli amici di «Cesaretto», lo scrittore Manlio Cancogni, ha già scritto nel romanzo Una parigina (Feltrinelli 1960) nascondendolo nel personaggio di nome Salvato, uno «così accecato dalla passione di sé da credere in buona fede di essere soprattutto un uomo spietatamente amante del vero: anche contro sé stesso e le sue illusioni». Fatto sta che in quella torrida estate del ’63, quando tutti i colleghi sono al mare di Fregene o in Versilia, esce il suo primo romanzo, destinato a rimanere tale, per cui ha scelto un titolo molto sibillino, L’allenatore, e una collana d’avanguardia, i «Nuovi narratori» di Vallecchi, diretta da Geno Pampaloni e da un giovane fuoriclasse della critica quale Cesare Garboli: la copertina è rosso arancio per la grafica di Bob Noorda, il libro è annunciato già in maggio da un’intervista di Andrea Barbato allo scrittore su Il Giorno ma Bruno ha preteso un’uscita ritardata per sottrarsi a ulteriori curiosità e specialmente alle incombenze dei premi letterari. L’allenatore è in ogni senso un libro unico e la sua materia è con ogni evidenza autobiografica.

SCRITTO IN PRIMA PERSONA, diviso in cinque capitoli, ciò che colpisce i lettori (ne avrà sempre troppo pochi, Bruno, ma taluni eccezionali e simpatetici come il poeta Giorgio Caproni), ciò che regolarmente li trascina e persino li inchioda alla lettera di un testo tutt’altro che semplice, è quanto Roland Barthes chiamerebbe la grana della voce, la quale innesca travolgenti monologhi (monologhi «esteriori», precisa Bruno, per sottrarsi alla moda joyciana): da un lato c’è la voce bassa, profonda dell’uomo ritroso e respingente che dice «io», dall’altro quella squillante, petulante della sua interlocutrice e deuteragonista, innamorata persa, l’ineffabile Elisabetta. Qui va chiarito il significato del titolo che solo indirettamente rinvia al calcio perché in realtà dalle cinque, stupendamente logorroiche, telefonate che costituiscono il romanzo emerge una classica educazione sentimentale, sebbene deviata e stravolta.

C’È INFATTI UN UOMO, un grande jongleur, che si limita a sedurre e dunque ad «allenare» all’amore le donne che incontra (e che, dice gelosa Elisabetta, gli si avventano come falene alla luce) per il semplice fatto che l’unica donna (domina, in senso etimologico) che egli davvero ami è una squadra di calcio, la Juventus qui rappresentata dal suo campione eponimo Omar Sivori: perciò il protagonista immagina le donne come entità surrogatorie, aleatorie, pari alle donne stilnoviste «dello schermo», con cui tratta solo nel momento in cui la squadra decade mostrandosi indegna del suo amore irreparabile. Il motto del protagonista del romanzo (che per certi aspetti potrebbe anche dirsi un ritratto dell’artista da tifoso) è lo stesso di ogni esteta, habere et non haberi, possedere senza essere posseduti. Equivale a sedurre e fuggire, a limitarsi a un gioco puramente estetico senza nessun vincolo etico come è tipico di un don Giovanni cui nel romanzo corrisponde, per effetto speculare, la moglie del suo migliore amico dal nome emblematico, Amleto: costei, Elisabetta, nella vanità sempre frustrata, nelle sue reiterate velleità, è un poco Ofelia e un poco anche la Signora Bovary. Intanto intorno a loro vibra un paese in fermento e in rapida trasformazione, un’arnia ronzante, un universo che va riempendosi di merci. Ha ben detto qualcuno che il romanzo si struttura a clessidra: primo e quinto capitolo sono occupati dai fatti ambientali, in secondo e il quarto dai vani patemi di Elisabetta, quello centrale invece dalla discesa agli inferi domestici, il ritorno a Presicce. L’allenatore narra di un doppio scacco sentimentale, è un diagramma della impotenza ad amare ovvero della costitutiva vanità dei rapporti nella neonata società affluente.

SCRIVE GARBOLI nell’anonimo risvolto di copertina (poi nella raccolta postuma La gioia della partita. Scritti 1950-1977, a cura di Laura Desideri e Domenico Scarpa, Adelphi 2016) che «con L’allenatore anche i fatti interni al labirinto dell’anima possono tradursi, essere enucleati in un linguaggio scrupolosamente articolato, analitico, reale». Chi voglia intendere in profondità la dialettica della rivoluzione neocapitalista nel nostro paese non può infatti che annettere L’allenatore alla costellazione di cui fanno parte La noia (’60) di Alberto Moravia, Fratelli d’Italia (’63) di Alberto Arbasino, Capriccio italiano (’63) di Edoardo Sanguineti e La vita agra (’62) di Luciano Bianciardi.
Ci informa il suo maggiore studioso, Daniele Greco (la cui accurata biografia di Salvatore Bruno attende ancora un editore), che lo scrittore già nel ’65 smette di pubblicare e alla fine degli anni ottanta torna al paese d’origine per morire in solitudine, il 18 marzo del 2001, in una clinica Lecce. Non vedrà mai riproposto il suo romanzo, oggi disponibile da Bordeaux (a cura di chi scrive, ndr) e con un profilo di Daniele Greco, ma forse gli bastava la lettera che aveva a suo tempo ricevuto da Ennio Flaiano, dove si legge: «Il tuo libro ha questa bellezza, che pur essendo il frutto di una intelligenza felice, mortificata dalle circostanze, dal carattere, da un certo bisogno di auto-distruzione, è un’ultima ricerca di verità».

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SCHEDA. Storia editoriale di un libro

Finito di stampare nel luglio del 1963, «L’allenatore» di Salvatore Bruno esce da Vallecchi nella collana «Nuovi narratori» diretta da Geno Pampaloni e Cesare Garboli. Il romanzo non è mai ristampato ma viene riproposto, postumo, prima da Baldini&Castoldi nel 2003 poi nel 2022 da Bordeaux di Roma («Biblioteca») a cura di Massimo Raffaeli con una «Notizia biobibliografica» di Daniele Greco. È lo stesso Daniele Greco a trattare del centenario della nascita di Bruno e insieme del sessantennale del romanzo in una bella intervista rilasciata a Giulia Eleonora Zeno per il sito TheBookAdvisor (thebookadvisor19@gmail.com).