Salvataggio letterario di biografie inghiottite dalla Storia
Scaffale «Il tempo degli imprevisti» di Helena Janeczek, edito da Guanda: libro in quattro movimenti su altrettante costellazioni di personaggi in un arco spazio-temporale che è quello alpino e subalpino fra il primo Natale del secolo e le leggi razziali
Scaffale «Il tempo degli imprevisti» di Helena Janeczek, edito da Guanda: libro in quattro movimenti su altrettante costellazioni di personaggi in un arco spazio-temporale che è quello alpino e subalpino fra il primo Natale del secolo e le leggi razziali
Mentre il Novecento si allontana, il nostro rapporto con le sue eredità non smette di apparire ambivalente: lo sa bene Helena Janeczek, i cui lavori romanzeschi, via via più orientati a mescolare realtà storica e invenzione, hanno affrontato i portati dell’abisso – la Shoah che si affaccia fin dall’esordio in lingua italiana con Lezioni di tenebra – ma anche recuperato figure capaci di lasciti propulsivi, come la Gerda Taro che le è valsa il premio Strega ne La ragazza con la Leica. È una diplopia irrinunciabile che si ritrova adesso, con un ulteriore scarto di sovranità stilistica, ne Il tempo degli imprevisti (Guanda, pp. 240, euro 19), libro in quattro movimenti su altrettante costellazioni di personaggi in un arco spazio-temporale che è quello alpino e subalpino fra il primo Natale del secolo e le leggi razziali.
DALLA VALSESIA muovono le sorelle Zanetta, Erminia e Abigaille, protagoniste del primo racconto, per trasferirsi a Milano, dirigente scolastica l’una, insegnante l’altra, alle spalle una gavetta prima torinese, poi «Ille» a Ginevra ed «Ermi» nello stesso capoluogo lombardo segnato dai moti del pane e dalla repressione di Bava Beccaris.
La città in crescita, sull’onda dell’Esposizione internazionale, richiede forza lavoro, anche nell’istruzione, meglio poi se donne, che costano meno dei maschi, sia pure animate dall’intento di una «pedagogia nuova». È qui che Ille sviluppa un’ideale comunista e femminista, scrive per testate militanti e interviene in pubblico con piglio via via più intransigente: disapprova la compassione conservatrice dei cattolici, a Macerata si pronuncia a favore dei diritti della maternità e in una lettera ad Anna Kuliscioff, centrale nella plurivocità di questa prima narrazione, non lesina critiche al suo riformismo da «imborghesita». Le sue note sul dissidio fra neutralismo e interventismo a sinistra, poi, sembrano ritagliate sulle cronache di oggi.
A KAFKA e a un suo soggiorno di cura a Merano nella primavera del 1920 è dedicato il secondo testo, che si apre come una citazione e si svolge come un noir divertito. Il fatto è che il «dottor K.», fra una colazione e una passeggiata, sospetta che qualcuno gli abbia aperto una lettera proveniente da Vienna e quindi lo stia spiando. Ma chi?
L’AUSTRIA È VICINA, le autorità italiane sorvegliano chi vorrebbe restituirle l’Alto Adige e anche l’antisemitismo sta alzando la voce: che sia stato un errore lasciare dal fornaio una rivista sionista? Non è quel che temono il medico Kohn o l’infermiera Golda, membri della locale comunità ebraica.
Qualche informazione in più può rimediarla la pensionante Stefanie, che sa delle tensioni separatiste e ha un confidente in Pepi, di origini triestine e che sa come rivolgersi al Commissario generale – il quale a sua volta è in attrito con il nazionalista Tolomei, «ubriaco di guerra» e avido d’italianizzazione come certe forze dell’ordine. Così una tensione politica può travisare un amore nascente, giacché quella lettera, scritta in ceco, è di Milena Jesenská, che ha da poco tradotto Il fuochista e per le strade della capitale austriaca s’interroga sugli strani modi dell’amico «Frank».
POLIFONIA, resa vivida dei luoghi e una lingua che si snoda ipotattica a sostenere l’ordinario che riempie l’esistenza anche in tempi imprevedibili: sono aspetti che si ritrovano anche dopo, nel racconto di una Venezia brumosa intorno al 1930, dove un «pitocco» dai connotati incerti insegue e spia una giovanissima Mary de Rachelwitz, figlia di Ezra Pound e di Olga Rudge, al contempo ricordando, tra affetto fraterno e invidia sociale, gli anni trascorsi insieme con i genitori presso Tirolo. E culminano, le qualità autoriali di Janeczek, nel testo corale che dà il titolo al volume: qui prende la parola la borghesia ebraica di Trieste fra il ’36 e il ’38, così assorbita da affari e pettegolezzi da non presagire ciò che proprio in piazza Unità si annuncerà con il proclama di Mussolini.
Ma il modo in cui questo «sbabazar» fra il Caffè Garibaldi e la Stella Polare ci accompagna nella vita, osservata da lontano, del giovane Albert Hirschmann, di sua sorella e del di lei consorte Eugenio Colorni, è il salvataggio letterario di una comunità che la Storia ha in gran parte inghiottito. Si può così richiudere anche l’arco spaziale, quando nella fuga di Albert verso Parigi il treno passa per Milano e sulla Sesia, quasi alludendo a ciò che fa anche il tempo, il quale «vola o si ripete, che fa lo stesso»: come fosse appena passato o si ripresentasse, esempio o allarme, a seconda.
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