Salten, empatia del ’900 per il mondo creaturale
Favole per adulti Al secolo era Siegmund Salzmann e scappava da Vienna dove lo avrebbero colpito le persecuzioni antisemite: la polizia svizzera lo fermò, qualcuno si accorse che era l’autore di «Bambi», dunque lo lasciò andare
Favole per adulti Al secolo era Siegmund Salzmann e scappava da Vienna dove lo avrebbero colpito le persecuzioni antisemite: la polizia svizzera lo fermò, qualcuno si accorse che era l’autore di «Bambi», dunque lo lasciò andare
Forse la sorte più gloriosa che può attendere uno scrittore moderno è l’oblio: vedere il proprio nome svanire nell’ombra della sua opera, mentre i personaggi iniziano a vivere un’autonoma esistenza. E i propri testi si trasformano: traditi e trasposti altrove, magari irriconoscibili e comunque anonimi, quasi come un proverbio o una filastrocca, diventando uno di quei beni comuni per i quali non ha più senso il problema delle mode, degli stili o della storia culturale. La voce del singolo libera da ogni connotazione individuale e ormai tramite di una moltitudine, oltre ogni possibile debito di legittimazione.
Muove anche da questa aspirazione il fascino esercitato su intere generazioni di romantici dalle fiabe e dai canti popolari: far tacere la propria soggettività, non soffrire più di cattiva coscienza. Viene da qui la nostalgia che, ancora nel Novecento, affiora per i tempi andati in cui un poeta non poteva rivendicare il possesso di un’opera, poiché essa era di tutti.
A pochissimi, nella modernità, è concesso di raggiungere questo superiore anonimato, creare un’opera che sia in grado di valicare i confini tra le arti e le distanze tra le nazioni, lasciando dietro a sé ogni autoriale paternità. Nella pur ricchissima cultura viennese di inizio Novecento, per esempio, qualcosa di simile riuscì solo Felix Salten, «autore tra i meno noti» – ricorda Massimiliano De Villa nel suo bel saggio che introduce la nuova edizione italiana di quel libro, a celebrarne i cento anni: Bambi Storia di una vita nel bosco (traduzione di Matteo Chiarini, Rizzoli «Classici BUR deluxe», pp. 224, € 18,00), arricchito anche dalle belle illustrazioni di Simone Massi e dalla prefazione di Luca Raffaelli.
Chi era Felix Salten? La domanda non è oziosa: se la posero anzitutto le guardie di frontiera svizzere, quando si videro giungere la sua richiesta di asilo, nel marzo del 1939. Il nome registrato all’anagrafe era Siegmund Salzmann; proveniva da una famiglia di ebrei assimilati e cercava allora rifugio alle persecuzioni che lo avrebbero colpito a Vienna, città dove aveva vissuto per settant’anni, fin dalla primissima infanzia. La necessità di abbandonare la casa in anni così tardi fu senza dubbio dolorosa. D’altronde, non lo legavano più a Vienna gli amici di un tempo, Hofmannsthal e Schnitzler, ai quali la morte prematura aveva risparmiato la necessità di fuggire. Da qualche anno era poi venuto a mancare anche Karl Kraus, che in quel mondo di ieri aveva scelto Salten come ricorrente bersaglio della propria satira. A renderglielo tanto inviso era soprattutto la prolifica versatilità con cui alimentava l’esercizio letterario, la sua disinvoltura nel passare dagli elzeviri alle novelle storiche, dai romanzi realistici alle storie di animali (Bambi è solo il caso più celebre di una copiosa produzione, accanto a Florian, il cavallo dell’imperatore e allo scoiattolo Perri, ai Quindici leprotti, al Cane di Firenze, che la Disney adattò nel film The shaggy Dog, uscito in Italia col titolo Geremia cane e spia). Di certo – scrisse Kraus nel 1931, in una perfida glossa – l’Accademia di Stoccolma non gli aveva ancora attribuito il Nobel solo per «embarras de richesse», ovvero perché i giurati non «avevano ancora trovato un accordo su quale opera scegliere»: gli uni preferivano una storia di leprotti, gli altri le immaginare confessioni della prostituta viennese Josefine Mutzenbacher, romanzo erotico pubblicato anonimo nel 1906, che più o meno tutti attribuiscono a Salten, pur senza mai giungere a trasformare i molti indizi al riguardo in prove incontrovertibili.
Il dileggio di Kraus non può comunque far velo all’evidenza: pochi autori furono legati a un libro come Salten fu legato al suo Bambi. E quando dunque la polizia svizzera, da sempre poco incline a lasciare facile accesso al paese, si trovò a vagliare il caso di quell’aspirante immigrato, il fascicolo al riguardo si aprì con una notazione probabilmente decisiva per l’accoglimento della richiesta di immigrazione: «Verfasser des Bambi Buches», «Autore del libro Bambi», aveva scritto qualche impiegato, sollevando sé e i colleghi dalla necessità di ulteriori indagini.
La fama di Bambi, tradotto presto in molte lingue (fin dal 1930 anche in Italia), sopravanzava dunque già nel 1939 quella del suo autore. Questo scarto si ingigantì, di lì a poco, quando nel 1942 uscì il film di animazione prodotto da Disney. Il nome di Salten passò allora per sempre in secondo piano, mentre il giovane capriolo, divenuto nella versione cinematografica un cerbiatto, entrava saldamente nell’immaginario globale, con picchi di popolarità, nell’immediato dopoguerra, anche nell’Unione Sovietica di Stalin.
Nel riandare da quelle fin troppo celebri immagini in movimento alle pagine del libro, la materia rivela inattesi significati. Anzitutto, nella vicenda del protagonista diviene possibile trovare una rappresentazione delle sorti del popolo ebraico, secondo un’interpretazione che si appoggia anche sulle simpatie nutrite da Salten per il sionismo. Ma è solo una tra le molte possibili interpretazioni. Come non avvertire, per esempio, nel «tuono» degli spari che costringono a una fuga pazza e disperata gli animali un’eco dell’artiglieria che solo qualche anno prima diffondeva il panico fra i poveri soldati della Grande Guerra? Nel saggio introduttivo, De Villa elenca ancora altre letture, ricordando chi ha accentuato gli aspetti ambientalisti e chi, forse con qualche forzatura, ha riconosciuto nel testo le tracce di una cultura fascistoide, per concludere osservando come non esista una chiave interpretativa definitivamente valida.
Proprio in questa molteplicità di prospettive risiede d’altronde il fascino del libro. Sebbene i rapporti tra gli animali del bosco sembrino alludere alle gerarchie e alle ingiustizie della nostra società, Bambi non appare riconducibile a un univoco significato allegorico. L’opera partecipa, invece, dell’empatico interesse che la cultura del primo Novecento mostra per il mondo creaturale – dalle avventure dell’Ape Maja di Waldemar Bonsels fino agli enigmatici racconti di animali – le Indagini di un cane, La tana, Josefine la cantante – che tennero impegnato Franz Kafka nell’ultimo periodo della sua vita, proprio mentre Salten andava pubblicando il suo Bambi, tra il 1922 e il 1924. Per Salten, il tentativo di risalire alla lontana parentela con il mondo creaturale è soprattutto un modo per superare la propria solitaria individuazione, proiettando se stesso fino al mondo vegetale, come avviene nel capitolo in cui, a mo’ di intermezzo, immagina un dialogo tra due foglie, sgomente per l’arrivo dell’autunno e tuttavia certe che al loro posto verranno un giorno altre foglie, «e poi altre, e poi altre ancora».
Nel trapassare di sé in piante e animali si cerca dunque un conforto al pensiero della propria morte, e si scopre qualcosa di più sugli uomini.
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