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Salari equi, Berna verso il voto

Salari equi, Berna verso il votoCamion scarica monetine da 5 centesimi durante la manifestazione per il reddito di base incondizionato nella Piazza Federale di Berna (Svizzera), il 4 ottobre 2013 – Foto Reuters/Denis Balibouse

Svizzera Il 24 novembre, il referendum sull’iniziativa popolare «1:12» per un limite al divario. «Uno stipendio 12 volte maggiore può bastare». Poi la Confederazione voterà anche sul reddito di cittadinanza

Pubblicato circa 11 anni faEdizione del 24 ottobre 2013

Otto milioni di franchi svizzeri sono tanti e a vederli tutti insieme, in monetine da cinque centesimi, scaricati da camion nella Piazza Federale di Berna, fa un certo effetto. Fa ancora più effetto pensare che una tale cifra sia stata spesa da Economie suisse, la Confindustria elvetica, per tappezzare la Svizzera di inutili manifesti contro il referendum che nel marzo scorso ha approvato l’iniziativa popolare contro le liquidazioni d’oro e altri tipi di «retribuzioni abusive» dei top manager. Con il 67,9% dei votanti e il 100% dei cantoni che ha votato sì, è il terzo miglior risultato dal 1891, data di nascita dello strumento delle iniziative popolari. Ed è stato il primo passo sulla strada, appena intrapresa dalla Confederazione, della riduzione delle diseguaglianze economiche.

Infatti quelle monetine riversate davanti al Palazzo federale il 4 ottobre scorso accompagnavano la presentazione in Parlamento delle firme necessarie per chiamare i cittadini ad esprimersi sul reddito di base garantito (2500 franchi almeno, circa 2000 euro) per ciascuno degli 8 milioni di svizzeri.

Ma al voto si andrà nel 2014; prima, il 24 novembre prossimo, ci sarà la consultazione popolare su un’altra iniziativa che chiede di limitare il divario salariale «cresciuto negli ultimi 15 anni in modo vertiginoso», come racconta il consigliere nazionale Cédric Wermuth, ex presidente di Gioventù socialista svizzera che ha condotto in porto la campagna «1:12 per salari più equi».
Se la riforma costituzionale verrà approvata anche con la legittimazione del voto parlamentare, nessun dirigente o collaboratore di aziende svizzere, sia pubbliche che private, potrà più guadagnare in un mese quanto percepisce in un anno il lavoratore con lo stipendio più basso.

«Un salario 12 volte più elevato può bastare», è il refrain della campagna che non è ancora entrata nel vivo ma che, stando al recente primo sondaggio della Srg Ssr, divide praticamente a metà la popolazione svizzera (44% contro 44%) con un 12% di indecisi. «Per salario – recita l’articolo della Costituzione modificato come chiede Gioventù socialista – si intende la somma di prestazioni (denaro e valore delle prestazioni in natura o servizi) che sono corrisposte in relazione a un’attività lucrativa… La Confederazione – si legge in un altro articolo della Carata riformata – emana le prescrizioni necessarie. Disciplina in particolare le eccezioni, segnatamente per quanto concerne il salario delle persone in formazione, degli stagisti e delle persone con posti di lavoro protetti; e l’applicazione al lavoro a prestito e al lavoro a tempo parziale».

Niente di rivoluzionario dunque, solo un tentativo di porre un argine alla follia dei superstipendi e delle disuguaglianze che perfino nel Paese più ricco d’Europa sono ormai inaccettabili: se nel 1984 il rapporto tra il minimo e il massimo salario percepito era di 1:6, nel 2012 è arrivato a 1:135. Secondo alcuni studi economici, però, la limitazione salariale proposta dall’iniziativa «1:12» riguarderebbe circa 4000 manager, meno dell’1 per mille dei lavoratori svizzeri. E siccome il salario sarà adattato al numero di ore lavorate, la campagna dovrebbe essere piuttosto intitolata 1:20, perché per esempio i dirigenti che lavorano 60 ore alla settimana potranno ricevere un salario 20 volte superiore a quello di un impiegato che ne lavora 40.

Insomma, l’iniziativa più che altro assume un forte valore simbolico. Anche se, spiega ancora Wermuth, «gli stipendi più alti potrebbero sì essere abbassati, ma si potrebbero anche elevare quelli minimi: abbiamo ancora 350 mila persone che lavorano in Svizzera per meno di 400 franchi, molti dei quali immigrati o frontalieri».

La destra elvetica da tempo soffia sul fuoco della paura, preconizzando scenari catastrofici: esodi in massa delle multinazionali e orde di lavoratori frontalieri che reclamano stipendi «d’oro» se paragonati al costo della vita in Italia. E già qualche impresa, come il gruppo logistico tedesco Kühne+Nagel, per esempio, minaccia di lasciare il Paese, nel caso di vittoria del comitato promotore. «Non credo che lo faranno – dice il consigliere socialista Wermuth – ma se anche lo facessero perché non vogliono accettare la democrazia e un minino di uguaglianza economica, non piangeremmo per loro: la nostra economia per fortuna è basata sulle piccole e medie imprese, non sulle multinazionali».

Ma, al di là dei risultati referendari, l’iniziativa popolare 1:12 e quella per il reddito di cittadinanza, a differenza di altri movimenti contro l’attuale gestione della crisi finanziaria globale, ha costretto il Paese elvetico a una discussione pubblica coinvolgendo anche chi normalmente, dall’alto e con in mano i cordoni della borsa, si occupa solo dei problemi «di sicurezza interna» legati a questo tipo di manifestazioni.

Un dibattito politico e sociale che i socialdemocratici europei cominciano ad affrontare: anche in Germania, per esempio, c’è la proposta di aumentare il minimo salariale a 8,50 euro l’ora.

E allora, cosa succede: l’era rigorista è sul viale del tramonto? «Spero di sì – risponde, in conclusione, il socialista Wermuth – la sinistra ci ha messo cinque anni a svegliarsi e a rendersi conto che siamo colpiti da una classica crisi di sovra-accumulazione. Ci auguriamo che i sindacati europei seguano questo esempio svizzero e lancino una campagna a livello europeo per una maggiore eguaglianza democratica ed economica».

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