Salvatore Quasimodo sosteneva che Saint-John Perse, il grande poeta francese originario della Guadalupa insignito del Premio Nobel nel 1960, fosse stato tradotto in Italia «assai mediocremente». Eppure, soprattutto in passato, non sono mancate le occasioni per rapportarsi proficuamente ai suoi testi, a cominciare dai tre monumentali volumi delle Opere poetiche allestite da Lerici, a cura di Romeo Lucchese nei lontani anni sessanta. Nel primo di questi libri figurava la versione ungarettiana dell’Anabasi, il poema di Perse più conosciuto, pubblicato nel 1924 da Gallimard, che idealmente si affiancava a quella, celeberrima, di Eliot (l’autore della Waste Land aveva predisposto ben tre differenti versioni del poema). Rilke e Archibald MacLeish dovettero rinunciare, nelle rispettive lingue, a un analogo progetto mentre il manoscritto con la resa tedesca di Walter Benjamin e Bernard Groethuysen è stato casualmente ritrovato tra le carte di Hofmannsthal, che doveva affiancarli nell’impresa come prefatore, e pubblicato postumo nel 1961, in un’edizione bilingue, dalla Piper Bücherei di Monaco. Per rimanere in ambito autoctono bisogna inoltre ricordare la traduzione di Anabasi intrapresa da Renato Mucci per l’antologia Le luci della vita (Accademia, 1972), basata sulla succitata edizione Lerici, e quella, eponima, di Rossella Pedone (Raffaelli, 2011). Si è contraddistinto in questo versante Giorgio Cittadini, licenziando una versione di Anabase, ricca di apparati, per ECIG nel 2000. Ora lo stesso Cittadini pubblica per Crocetti editore una nuova traduzione di Anabasi («Kylix», pp. 128, € 12,00), con testo originale a fronte, che lo conferma come il referente italiano più autorevole del poeta francese, soprattutto dopo l’uscita dei Poemi provenzali, editi da Crocetti nel 2016, curati insieme alla specialista Joëlle Gardes; questi ultimi comprendevano il dittico Cronaca e Canto per un equinozio, a sua volta suddiviso nella tetralogia rappresentata dal testo eponimo, oltre che da Siccità, Notturno e Cantato da colei che fu presente.
Anabasi è un poema ripartito in dieci parti arricchito da due canzoni sui generis che compaiono rispettivamente all’inizio e alla fine. Ha una struttura circolare, in virtù di incipit ed explicit delle canzoni dominati dalla figura equina, simbolo del poema in via di definizione: il «puledro sotto foglie di bronzo», dopo rutilante metamorfosi, diviene «cavallo sotto quell’albero che tuba». Fu composto in Cina, presumibilmente tra il 1917 e il 1923, durante una delle tante missioni diplomatiche che l’autore intraprese sulla falsariga dell’amico Claudel (ma non si dimentichi anche il precedente di Victor Segalen). Secondo quanto riportato dall’autore, il poema sarebbe stato scritto di getto nell’estate del 1917 durante il soggiorno nel tempio taoista di Tao-Yu, che si trovava a un giorno di cavallo da Pechino (si confrontino al riguardo le Lettere a mia madre dalla Cina, edite da Medusa nel 2016, di cui ricordiamo en passant anche i contributi variegati di L’ossessione celeste nel 2021). Uno dei punti fermi degli esegeti riguarda il distacco con cui andrebbero vagliati gli spunti biografici proposti dall’autore, portato a mitizzare certi eventi e a minimizzarne altri, anche se la sua intransigenza morale fu indubbia, considerata la manifesta opposizione al regime di Vichy che gli costò l’esilio.
Nonostante il riferimento a Senofonte risulti suggestivo, Perse medesimo dichiarerà in una lettera a Eliot che il titolo va inteso «nel semplice senso etimologico di “spedizione verso l’interno” con un significato al tempo stesso geografico e spirituale (ambiguità voluta)». Il tema della conquista militare, per quanto reso in forma vaga e non localizzata, permea tutta l’opera, diventando una sorta di allegoria di uno specifico approdo poetico e trascendente. Una delle interpretazioni più cristalline è quella dell’amico Paulhan: «L’anabasi è nel contempo l’avanzata di un principe guerriero, la progressione verso l’interno (di un paese, di un’anima), l’ascensione, e del tutto semplicemente l’atto di montare a cavallo». D’altro canto la poetica di Perse rimane sostanzialmente fedele a sé stessa fin dagli esordi di Éloges, diramandosi sulla pagina alla stregua di un intrico di rami che rivolgano al cielo la loro scarnificata infiorescenza. La musica è il fine e la fine, il suo particolare idioletto accoglie un carosello di riferimenti naturali che, in forma ossessiva, popola le serrate sequenze poetiche, con particolari dissezionati di volta in volta dal bisturi di uno scibile che non disdegna alcun tipo di dottrina, dall’umanesimo alle scienze. In quest’ambito un ruolo preponderante gioca la dimensione archetipica, con suggestioni che non si limitano al versante mitologico, ma spaziano alle più svariate discipline: antropologia, geologia, ornitologia, botanica, araldica, alchimia, finanche diritto.
Osserverà a tal proposito Ungaretti come il destino della poesia di Perse sia «quello di essere legato alla sorte di tutto: individui di ogni sorta dell’umano genere, suoi simili; o un insetto straordinario; o l’ossessione di un minerale; o il colore del vento…». Questa multiforme gamma espressiva si articola lungo un apparato prosodico cadenzato su «sequenze omologiche» (Caillois) di complessa tessitura formale che Cittadini cerca puntualmente di riproporre (vedi il «breve excursus tecnico del curatore», al quale si rimanda per la complessità degli enunciati, laddove si analizzano elementi come tirata, lassa o strofa, versetto, subunità del versetto, con chiaro riferimento a quello biblico). Si creano così periodi binari e ternari che, variamente combinati, formano la peculiare struttura simmetrica dell’Anabasi.
Le traduzioni di Cittadini sono fedeli ed accurate e, a prescindere da qualche arcaismo di troppo come l’uso dell’apocope, attualizzano felicemente la lezione ungarettiana. Qualche esempio? Un frammento del canto I: «Aux ides pures du matin que savons-nous du songe, notre aînesse?». Così Ungaretti: «Primogenitura nostra, agli idi puri della mattina che sappiamo noi del sogno?». Ecco invece Cittadini: «Alle idi pure del mattino che n’è del sogno, nostro primogenito?». Incipit del canto V: «Pour mon âme mêlée aux affaires lointaines, cent feux de villes avivés par l’aboiement des chiens…». Ungaretti, con senso mimetico delle paronomasie: «Per l’anima mia mescolata agli affari lontani, cento fuochi di città avvivati dall’abbaiamento dei cani…». Cittadini, optando per un regime più lineare e severo: «Per la mia anima coinvolta in faccende lontane, cento fuochi di città ravvivati dal latrato dei cani…».
Le versioni differiscono dunque per minimi particolari, orientati a rendere in forma più moderna quello che è considerato l’ineguagliabile punto di arrivo ungarettiano. Spesso Cittadini si rifà apertamente alla soluzione adottata dall’autore dell’Allegria, consapevole che la polisemia dell’originale si possa rendere solo con un’apposita chiosa in calce al testo (si veda ad esempio il termine «aisselle» presente nel canto II, riportato con «ascella», che inevitabilmente perde la sfumatura «botanica», tesa a indicare il punto dove la foglia si attacca al ramo).
In certi frangenti la versione di Cittadini quasi coincide con quella di Ungà, facendo ricorso, per differenziarsene, solo a qualche sinonimo, come nel seguente passaggio del canto III: «Il Verificatore dei pesi e delle misure scende i fiumi enfatici con ogni specie di briciole d’insetti / e di festuche di paglia nella barba» (Ungaretti); «Il Verificatore di pesi e di misure discende i fiumi enfatici con ogni sorta di resti d’insetti / e festuche di paglia sulla barba» (Cittadini). Ma è un rischio che il traduttore deve correre al fine di metabolizzare una lezione che, con qualche eccezione, si configura come un congegno delicato che presuppone un’adesione mimetica al salmodiare di Perse, ottenuta attraverso un particolare processo empatico. Tale fedeltà non inficia l’eleganza connaturata al dettato stesso del poeta traduttore (e si pensi anche agli esiti da Shakespeare, Blake, Góngora, Racine, Mallarmé), assurto giocoforza a melomane.