Saidiya Hartman, coriste del diavolo dall’averno dei ghetti
L’allusione all’invisibilità, non di rado accompagnata dal nascondimento nelle tenebre e nelle viscere della terra, corre lungo tutto l’arco della letteratura afroamericana del Novecento. Già nel 1903, W.E.B. Du Bois scriveva di come il suo popolo vivesse coperto da un velo in grado di separarlo dal resto della società statunitense, impedendo peraltro all’America bianca di riconoscere la concretezza dell’esperienza consumata sull’altro lato della linea del colore. Qualche decennio più tardi, Richard Wright riprese, inasprendole, le riflessioni di Du Bois in L’uomo che visse sottoterra, e raccontò di un fuggiasco che scompare nel buio delle fognature, spazio simbolico nel quale lo scrittore proietta, con la sua tipica crudezza, la nuda vita del ghetto.
Dal proprio nascondiglio sotterraneo, una cantina dismessa a Harlem probabilmente ispirata dal romanzo di Wright, l’anonimo protagonista di Ralph Ellison in Uomo invisibile rimugina sulla propria condizione in un mondo incapace, o non disposto, a riconoscerlo: «Sentite, sono invisibile per il semplice fatto che la gente si rifiuta di vedermi». Ellison scrisse il suo romanzo in aperta rottura con Wright, che pure era stato suo mentore, rifiutando di limitarsi a uno schietto realismo sociale, e proponendosi di valicare i confini angusti della letteratura di denuncia. Esperto conoscitore di jazz e lui stesso musicista, guarda al blues, motore profondo della cultura afroamericana: non solo e non tanto genere musicale ma piuttosto – secondo diversi critici, Houston A. Baker Jr. su tutti – principio organizzativo sul quale si è plasmata una certa letteratura, e ethos fondativo di una strategia di resistenza inventiva che oppone all’oppressione l’impulso a raccontare. Alle corde, ignorata quando non apertamente minacciata, la vita nera proiettava così la sua fame di raccontarsi oltre gli stereotipi disegnati dall’America bianca.
A mezza via fra gli obblighi testimoniali di un realismo immune da compromessi, alla Richard Wright, e la volontà di riscattarne l’intrinseco pessimismo con l’arte di raccontare, l’opera di Saidiya Hartman dimostra come l’arco dell’esperienza afroamericana sfugga e resista al nichilismo di chi la raffigura sin dall’inizio condannata, sconfitta, intrinsecamente deviante. La sua ultima fatica, Vite ribelli, bellissimi esperimenti (traduzione di Maria Iaccarino, minimum fax, pp. 476, € 20,00) è da questo punto di vista il suo capolavoro, l’opera che più di tutte ne rappresenta la poetica. Hartman esordì come studiosa con Scenes of Subjection (1997), testo divenuto poi cruciale per la corrente dell’afropessimismo, per la quale l’esistenza afroamericana è inseparabile, tanto ontologicamente quanto da un punto di vista narrativo, dall’esperienza della schiavitù. Nonostante ciò, Hartman rifiuterà di vedersi associata a questa visione irredimibile, e si dedicherà a quella che chiama «fabulazione critica», ovvero l’applicazione della fiction alla ricerca accademica, per cercare al tempo stesso di riempire i vuoti della storiografia e forzare i limiti dei resoconti istituzionali. Un esercizio critico non lontano da quello che l’ambito della critica postmoderna riassume nel concetto di «metanarrazione storiografica», strategia finalizzata a disseppellire prima e riscrivere poi le storie cancellate dagli annali.
Focalizzandosi sui ghetti di Philadelphia e New York nel passaggio dal XIX al XX secolo, in Vite ribelli Hartman raccoglie storie di donne nere e ne evidenzia l’intrinseco spirito sovversivo, cucendole insieme tramite digressioni storiche di ampia gittata che, come nella musica afroamericana, instaurano con le protagoniste un call-and-response capace di donare al romanzo una dimensione corale. Sono donne, quelle ritratte in queste pagine, che hanno fatto dell’insubordinazione, anche e soprattutto contro i ruoli prestabiliti dal genere, il proprio imperativo, sfidando le costrizioni della società americana dell’epoca. Animando i documenti e le testimonianze di un afflato che li strappa al freddo rigore storiografico e li consegna a un pathos romanzesco, il libro di Hartman si fa cassa armonica di esistenze condannate a una doppia invisibilità, in quanto nere e in quanto donne. Dalla riemersione di elementi soffocati nascono racconti esemplari nei quali l’ineluttabilità del dramma contingente acquista la solennità politica della tragedia. Sull’esempio di Langston Hughes, Hartman si proclama bardo del ghetto più abissale, e potenzialmente più rivoluzionario, menzionando solo di passaggio le straordinarie e già ampiamente mitizzate vite di quelle donne nere che durante il New Negro Movement s’imposero all’attenzione pubblica. Se Ma’ Rainey, Ethel Waters e Gladys Bentley si limitano a una comparsa sulla scena esuberante del Rinascimento di Harlem, palcoscenico dell’opera, protagonista ne è, piuttosto, il ventre occulto della società nera, di cui l’autrice svela l’eccezionale vitalità. «Bellissimi esperimenti» si succedono nelle pagine, evidenziando la ribellione della componente femminile popolare in quegli anni di rivoluzione culturale. Più volte la narrazione torna alla rivolta nel carcere femminile di Bedford Hills del 1920, che ne diviene così il centro simbolico: per protestare contro i sistematici maltrattamenti, non di rado protratti fino alla morte, le detenute intonarono quello che il «New York Times» chiamò il «coro del diavolo cantato da ragazze in rivolta». Questo «inferno in versione jazz» è per Hartman il «rumore nero» prodotto dalla «resistenza sotto forma di musica»: l’urlo del blues che spezza il rumore bianco della storia egemone, decostruito e poi infiltrato con la sapienza di un testo accademico e il trasporto di un romanzo, ciò che fa di Vite ribelli un monumento a esistenze al tempo stesso incerte e gloriose.
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