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Sahara in onda, con Aziza Brahim

Sahara in onda, con Aziza BrahimAziza Brahim (foto Guillem Moreno)

Storie/Incontro con la cantante, che torna con un nuovo album, e con altre voci della musica haul I ritmi tradizionali uniti a sonorità contemporanee in «Mawja», il disco dell’artista, considerata l’erede di Mariam Hassan. «Cerco di trasformare in canzoni le poesie di mia nonna, nota come 'la poetessa del fucile'». Un reportage dall’interno dei campi profughi per riportare l’attenzione sulle difficili condizioni in cui versa da anni il popolo saharawi

Pubblicato 9 mesi faEdizione del 2 marzo 2024
Gianluca DianaCAMPI PROFUGHI (ALGERIA)

Mawja, nella lingua hassanya parlata dai saharawi, significa onda. È una parola usata quando si sintonizza una stazione radio. Alle frequenze on air, il popolo del deserto è profondamente legato da una fondamentale vicenda storica: il ventisette febbraio 1976 nei territori liberi del Sahara Occidentale, nel villaggio di Bir Lehlu, dai microfoni della Radio Nacional veniva proclamata la nascita della R.A.S.D. (República Árabe Saharaui Democrática). A dare l’annuncio via radio fu il primo presidente El Uali Mustapha Sayed, il quale rimase in carica fino alla prematura morte sopraggiunta il 9 giugno dello stesso anno, a seguito di uno scontro militare tra l’esercito saharawi e quello mauritano. In memoria del leader politico, alla nascente orchestra nazionale venne attributo il suo nome. A quel numeroso e talentuoso ensemble si deve la nascita della musica haul, portata poi al massimo sviluppo dalla leggendaria cantante Mariem Hassan che in quell’orchestra mosse i primi passi.

L’eredità della Voz del Sahara, scomparsa nel 2015, da tempo è stata raccolta da Aziza Brahim, musicista di calibro internazionale che ha condotto l’haul nella contemporaneità. Con un elegante gioco di rimandi tra memoria personale e collettiva, Brahim ha recentemente pubblicato un nuovo lavoro intitolato Mawja (Glitterbeat Records), che afferma essere il suo tributo alla musica con cui è cresciuta attraverso le stazioni radio. Il valore di questo disco testimonia, oltreché la crescita dell’artista, il consolidamento nell’attualità del global south dell’haul: come questo sia accaduto, lo raccontano le stelle di ieri del Grupo Nacional Martir El Uali Mustafa Sayed che abbiamo rintracciato nei campi profughi situati nei pressi di Tindouf, Algeria, oltre alla stessa Brahim residente in Catalogna.

PER LA CAUSA
Il sole del pomeriggio sferza con vigore la wilaya di Rabuni e l’esigenza impellente è trovare riparo. Utili in tal senso sono gli uffici di servizio dell’Archivo de Información della radio nazionale, dove ci attende Kaziza, chitarrista co-fondatore del Grupo El Uali e creatore musicale dell’haul. A lui si deve il suono di dischi come 7 años de lucha armada e ¡Polisario vencerá!, fondamentali per lo sviluppo del genere. Incontrarlo e intervistarlo è un’occasione unica, dal ritiro dalle scene nel 1992, solo altre due volte si è reso disponibile: «Sono nato a El Aaiùn, nei territori occupati, dove sono rimasto fino al 1975, quando fuggimmo via a seguito dell’invasione marocchina. Sin da bambino ho sempre amato la musica. Nel 1973 comprai la prima chitarra e iniziai a fare pratica, anche se in famiglia non volevano perché pensavano che avrei tolto tempo allo studio. Non sbagliavano. Uscito dalla scuola, invece dei compiti, facevo pratica con la chitarra sul tetto di casa. Nonostante fossero gli anni dell’occupazione spagnola, ho avuto l’occasione di vedere un concerto di anziani musicisti saharawi in un cinema di El Aaiùn. Rimasi impressionato e da quel momento, ho approfondito lo studio dello strumento. Avevo sedici anni quando nel 1975 formai il primo gruppo. Nel frattempo il movimento di liberazione nazionale Saguía el Hamra y Río de Oro, che stava crescendo sempre più, decise che fosse necessario coinvolgere la gioventù. Per far questo diedero impulso alla musica e rifornirono di strumenti me e altri giovani musicisti. Comprarono chitarre, batterie e trovarono una casa dove potessimo suonare per attirare l’attenzione dei coetanei. Ma arrivarono la Marcia Verde e la guerra e fuggimmo dalle nostre case».

L’esilio nei nascenti campi profughi e le enormi difficoltà incontrate, non fermarono il suo percorso di crescita artistica. «Sono stati anni difficili – continua -, ma la nostra era una rivoluzione giovane che non dimenticava quanto fosse indispensabile l’elemento culturale. Il Polisario decise che serviva un gruppo musicale che andasse in tour e partecipasse ai festival esteri, al fine di diffondere la causa saharawi nel mondo. Fui io a introdurre la chitarra. Prendemmo spunto da una vecchia e importante formazione di Nouakchott, l’Orchestra National Mauritanien Ahl Nana. Provammo a imitarla con esito negativo, ma da quell’insuccesso sviluppammo l’haul. A differenza del loro – molto intimo – il nostro era energico e popolare perché aperto a voci di vario tipo che cantavano la rivoluzione. Lavorai sul mio stile che avevo impostato prima dell’esilio, caratterizzandolo con accordature internazionali e accordi maggiori e minori».

Una musica fresca, nuova e desiderosa di suonare un futuro migliore: «Il gruppo inizialmente si chiamava Shahid El Hafed Buyema. Cambiò nome quando assunse quello del nostro grande leader El Uali. Il primo concerto fuori dai campi fu ad Algeri il 20 Maggio 1976, ed ero solo io affiancato da percussioniste locali. Poi ne avemmo altri con la formazione allargata sia in Algeria che in Libia. A organizzare il tutto con me c’era un vecchio amico, Brahim Ehmeyada, che forniva un’intelaiatura essenziale alla chitarra ritmica. Il processo creativo era così composto: i poeti scrivevano le canzoni, io la musica da inserire tra gli intervalli delle poesie. Successivamente insegnavo la melodia al cantante del momento. Abbiamo iniziato in questo modo. Dopodiché la formazione si è allargata e abbiamo intrapreso tour per il mondo».

DIGNITÀ
Lasciamo Rabuni per raggiungere El Aaiùn, accampamento ben più grande del precedente dove le condizioni di vita, già difficili in epoca pre-covid, sono peggiorate con la combinazione tra pandemia e conflitto ancora in atto tra il governo del Polisario e il Marocco. A dispetto delle avversità, la dignità con cui i saharawi affrontano la quotidianità emerge al meglio anche nella locale stazione radiofonica dove siamo ricevuti; nonostante mura fatiscenti e attrezzature tecniche degli anni Ottanta, tutto è perfettamente funzionante. Incontriamo una delle voci epiche del Grupo El Uali, il cantante Mahfud Alyen. L’autore di brani molto noti in quel contesto come Sin secreto, Viva el Polisario e Lumaya, che indossa una elegante darra, il vestito tradizionale degli uomini, è stato una autentica star dell’orchestra: fisicamente imponente, carismatico e dotato di una voce così incredibile al punto da essere considerato l’alter ego dell’amica Mariem Hassan. La sua storia è naturale complemento di quella di Kaziza: «Mi chiamo Mahfud Aliyen Dribaba, vengo da Dakhla occupata e ho sessantacinque anni. In famiglia, venni introdotto alla musica da mia madre, poetessa e cantante. Grazie alle musicassette e alle radio, simili a questa dove siamo ora, mi innamorai di musicisti come Stevie Wonder, James Brown e i Beatles. Provavo ad imitarli percuotendo delle lattine con dei bastoncini di legno. Non ero il solo ad ascoltarli. A Dakhla eravamo in molti, tra cui il mio vicino di casa Brahim Ehmeyada con la sua amata chitarra. Crescendo, passai dalle lattine ai tamburi mentre Brahim di fianco a me diventava sempre più bravo: fu naturale per noi sia aderire al nascente movimento rivoluzionario che entrare nell’orbita della futura orchestra El Uali in cui esordii casualmente nel 1978, quando durante una ricorrenza del Polisario in cui si fa festa e si canta, venni invitato. Videro che oltre che con la voce, me la cavavo bene anche alle percussioni. La conseguenza fu che da quel momento in poi venni chiamato ai tamburi per la musica tradizionale e alla voce per l’haul».

La memoria di Alyen è nitida come il suo canto: «Con El Uali si creò una vera e propria struttura organizzativa. Ogni wilaya (provincia, ndr) aveva più gruppi che facevano esperienza durante i giorni festivi. I migliori musicisti venivano scelti per formare la band di rappresentanza. Questo accadeva in ogni wilaya, in modo da selezionare poi donne e uomini che confluissero in El Uali al cui interno inizialmente eravamo in dodici, ma con il tempo arrivammo a venticinque. Il numero dipendeva da cosa avremmo suonato e cantato: maggiore per la musica tradizionale, minore per quella moderna che includeva chitarra, basso e batteria».

Alyen ebbe la sua consacrazione con la formazione capitanata negli anni Ottanta dal direttore Mohammed Tammi, a cui si aggiungeva Kaziza come responsabile della parte strumentale: «Il primo viaggio con la band fu a Barcellona nel 1982 per registrare un disco. Poi seguirono altri tour. Ad occuparci delle parti vocali eravamo prevalentemente io e Ahmudy Calush, un cantante strepitoso e una persona divertente che morì giovane in seguito a complicanze da diabete. Siamo stati un gruppo molto affiatato. Abbiamo suonato in giro per il mondo e in Europa: Francia, Svezia, Portogallo, Olanda e Italia, dove abbiamo visitato tra il 1989 e il 1995 vari luoghi tra cui Firenze, Livorno e Roma. Della vostra capitale ho un ricordo indelebile: ci esibimmo in un teatro descritto come il più grande della città. Era completamente esaurito e tante persone non riuscirono ad entrare. Suonammo meravigliosamente per ore, col pubblico in visibilio. Per l’occasione, era presente anche il compianto presidente Mohamed Abdelaziz». Mahfud Alyen, a dispetto dell’età è ancora attivo e in forze. Il suo patrimonio non andrà disperso: la tradizione di famiglia prosegue grazie a suo figlio Lemrabet Mahfud Aliyen.

TRA LE DUNE
La vecchia Toyota del 1984 arranca nelle invisibili strade tracciate nella sabbia di Smara, ma non demorde. Dopo un percorso tortuoso tra una duna e l’altra, giungiamo finalmente davanti a una grande jaima, la tenda epicentro della vita saharawi. La tinta ocra della sabbia e l’azzurro del cielo sono un contrasto tanto netto quanto affascinante. Ma nulla a confronto del variopinto tessuto che tappezza l’interno della jaima: un mondo altro che appare lontanissimo dall’esterno, in cui a fare gli onori di casa è Salma Mohamed-Said, meglio nota come Shueta. La voce scabra e selvaggia la rende amata dalla sua gente: «Con la musica, che è anche il mio lavoro, ho un rapporto particolare. Per me è un’eredità preziosa lasciatami da nonni e genitori. Da bambina, mia madre mi prendeva per mano portandomi alle feste per insegnarmi la musica, in particolare quella tradizionale. Cantava e aveva una bellissima voce. Certo, se ne è andata da tempo, ma ho imparato molto da lei e anche da sua sorella che cantava nello stesso ritmo». Mentre racconta, Shueta accarezza il t’bal, il tamburo saharawi, con gesti delicati e concentrici: «Dal momento dell’esilio, mi sono impegnata duramente nell’apprendere come cantare nel modo migliore. La mia storia musicale è emblematica, in quanto ho iniziato con i gruppi del barrio (quartiere, ndr), della daira (comune, ndr) e della wilaya per poi arrivare nel Grupo El Uali. Con questo ho iniziato una lunga esperienza internazionale che per me è stata determinante. In tal senso, uno dei momenti più significativi è stato l’incontro nel 1982, durante un festival in Libia, con la stella mauritana Dimi Mint Abba che dedicò una canzone alla causa saharawi. Compresi che la nostra musica aveva una caratura mondiale».
La consapevolezza artistica giunse nel 1985 : «In quel periodo alcune mie canzoni divennero famose tra i saharawi e non solo. In una di queste, i versi così recitano “Un popolo che sta lottando con il sangue per la sua dignità e il suo rispetto non sarà mai sconfitto”. Quando la gente si emoziona per te, capisci di essere arrivata dove volevi. Le parole sono importanti e infatti ho sempre collaborato con poeti come Beibuh e, soprattutto, con la grande poetessa Embarka Alina Alì, scomparsa a inizio anni Duemila. Lei ha scritto molte canzoni per me, dove racconto della realtà, della lotta, della guerra e della sofferenza del nostro popolo». Conclusa l’esperienza con El Uali negli anni Novanta, entrò a far parte della formazione Tiris, con la quale nel 1994 incise un album omonimo, recentemente ristampato dalla Sahel Sounds. In quel gruppo spiccano compagni di viaggio come il chitarrista Mohammed Ali, l’innovativo tastierista Baba Jouli e l’amico di sempre, il suonatore di tidinit Mohamed Salek. Il passo successivo fu l’esperienza nel sorprendente disco Mariem Hassan con Leyoad che ebbe il merito di inserire l’haul nel global south del nuovo millennio: «Esattamente come Mariem, ho avuto un contratto per un anno e mezzo con quella label, dopodiché tornai con Tiris, dove sono ancora oggi». Con Hassan ha condiviso anche due incisioni a sua firma nel disco di musica tradizionale Medej-Cantos antiguos saharauis: «Conobbi Mariem nel 1975, durante l’esodo. Mariem giunse in una Land Rover con suo marito. Per caso, ci ritrovammo tutti a un matrimonio e Mariem iniziò a cantare, io e altre le facemmo il coro. Le piacque, mi abbracciò e iniziò così la nostra amicizia. Mi manca molto. Vorrei concludere questa intervista con una canzone per voce e t’bal dedicata a quei tempi». Shueta, oltre matrimoni e feste private, lavora ufficialmente con il Ministero della Cultura per conto del quale si esibisce.

TRE VOLUMI
Sahrauis-The Music of the Western Sahara è un cofanetto imperdibile di tre volumi pubblicato a fine anni Novanta. Contiene registrazioni tra loro molte diverse, inclusa una meravigliosa Dios mio! dove una giovanissima Aziza Brahim brilla con voce e t’bal in una sessione di rara bellezza. Da allora ha percorso moltissima strada, è divenuta la principale artista saharawi vivente e come accennato, l’ultimo Mawja è un disco che riassume in sé l’affetto per la radio e il calore familiare: «Mawja oltre a dare il nome all’album, è anche la parola che gridavano i nonni quando riuscivano a sintonizzarsi. La canzone ricrea quel momento magico in cui appare il brano che ti piace, che ti dà energia e ti accompagna per il resto della giornata perché ti identifichi con esso, ti connetti con la tua storia attraverso quella di un’altra persona e ha l’atmosfera necessaria per affrontare le situazioni quotidiane». Il brano ha tono gioioso e include una sana attitudine pop che si riscontra in tutto l’album. Nelle dieci canzoni presenti il valore della rimembranza utile a una visione costruttiva del futuro, è un dato inconfutabile: «Sì, il passato e la memoria sono temi importanti di questo album. La canzone Ben Trab U Lihjar è un’evocazione dei giochi tradizionali saharawi tipici dell’infanzia. Che ho trascorso tra l’altro cercando di trasformare in canzoni le poesie recitate da mia nonna». Proprio a questa rilevante figura familiare è dedicata Duaa, una delle tracce più emozionanti: «Ljadra Mint Mabruc è stata una grande poetessa della rivoluzione saharawi, nota come la “poetessa del fucile”. Aveva un dono speciale per la composizione. Sebbene non sapesse né leggere né scrivere, fin da giovanissima iniziò a comporre mentre viaggiava con la famiglia nomade. Allo scoppio della rivoluzione, fece sforzi per emanciparsi, imparò a leggere e scrivere, mise i versi al servizio della causa e questo si intensificò durante l’occupazione, l’esilio e la guerra. Ljadra era una specie di corrispondente poetica del conflitto. Per me è sempre stata un grande riferimento, un esempio da seguire come poetessa e persona per determinazione, capacità di resistenza e tenacia».
Il futuro passa dall’amore materno attraverso l’oscillante desert blues di Thajliba: «Nella poesia saharawi è un canto di lode per una persona ammirata o amata. Qui esprimo i sentimenti nei confronti delle mie figlie, guardando al presente e al futuro. È una canzone di amore incondizionato da madre a figlia e, per estensione, è una canzone di liberazione e di emancipazione femminile». I rapporti famigliari trovano ovviamente centralità nella danza leggera di Ljaima Likbira, letteralmente la grande jaima: «È un omaggio alla casa dei nonni materni dove sono nata e cresciuta. È un concetto culturale: la grande jaima è la casa dei nonni, dove convive una famiglia. È il luogo quotidiano della convivenza, lo spazio della cura, dell’educazione». Notevole è anche l’intenso blues di Metal, Madera dove l’autrice con stile ed eleganza riserva un’aspra critica al monarca marocchino e al suo enorme senso del possesso.

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