Molti dei principi che Jonathan Franzen riversò a suo tempo in una sorta di decalogo del perfetto narratore sono stati da lui stesso felicemente smentiti: «Si vede di più rimanendo fermi che inseguendo qualcosa», scrisse attratto da una saggezza di sapore zen; ma, all’atto pratico, è indubbio che non sarebbe approdato alla conoscenza minuziosa di molti dei luoghi, anche remoti, in cui si è spinto se non grazie all’inseguimento degli uccelli, di cui è un appassionato catalogatore. Proprio l’esigenza di adeguarsi alle rotte dei volatili, sottoponendosi a marce forzate alternate a ore di noia esplosiva, tra sbalzi climatici e mortificazione delle proprie pulsioni primarie lo ha forzato a calarsi in una miriade di dettagli da afferrare e introiettare con quella spasmodicità che una attitudine stanziale non avrebbe reso necessaria.
Anche l’imperativo a scrivere in terza persona, tutt’ora valido per le opere di narrativa, sembra avere ceduto il suo fascino di fronte ai vantaggi offerti dal filtro dell’Io, che Franzen si sente legittimato a usare solo, si direbbe, nei suoi testi saggistici, sebbene la nuova raccolta appena uscita con il titolo La fine della fine della terra (traduzione di Silvia Pareschi, Einaudi, pp. 216, € 18,50) si apra con la registrazione del fatto che alcune tra le migliori opere contemporanee esibiscono una ibridazione sfrontata tra saggistica e fiction. Da qui il sospetto che l’immaginazione e l’invenzione siano «artifici superati», e la scrittura autobiografica l’unica «autentica e politicamente difendibile». Ma le considerazioni generali si fermano qui: per il resto, in quella che è la sua ultima raccolta di saggi, Franzen parla di sé, della affinità profonda tra l’ambientalismo al quale è approdato e il puritanesimo del New England dal quale proviene, entrambi «sistemi di credenze … ossessionati dall’idea che essere umani significhi di per sé essere colpevoli».
L’esempio delle urie
Da questa coscienza infelice, dalla oscillazione fra i tentativi di scrollarsela di dosso e la rassegnazione a immergervisi senza resistenze, nascono le attrattive più riconoscibili della sua intelligenza, che gli ha guadagnato attacchi sarcastici, per esempio da parte di alcune associazioni ecologiste e dalle Cassandre dei cambiamenti climatici, entrambe indignate dalla sconvenienza critica di Franzen, che riporta i commenti dai quali è stato gratificato – «negazionista», «cervello di gallina» – con ironia ma anche con commossa immedesimazione nella vacuità delle ottime intenzioni altrui. Nel corso della sua militanza ambientalista, tanto improbabile gli sembrava il fatto che «una coscienziosa élite internazionale, quella che si raduna in eleganti alberghi in giro per il mondo, potesse impedire alle calotte di sciogliersi», tanto cresceva la consapevolezza che solo «apprezzare la natura come un insieme di specifici habitat minacciati, e non come una cosa astratta che sta “morendo”, potrà impedire il completo snaturamento del mondo».
Come più o meno tutti i migliori romanzieri, Franzen attinge da un contatto ravvicinato con la realtà i materiali per le sue costruzioni fantasmatiche: del tempo in cui scriveva per guadagnarsi di che vivere sono rimaste, tra le sue inchieste migliori, quella sul crollo del servizio postale a Chicago, commissionata dal «New Yorker» e la visita alle carceri di ultima costruzione nel Colorado, pubblicata dal «Details Magazine», pagine sofferte e sottratte al rischio, spesso sfiorato, di fallire l’obiettivo. Ma da quando il successo lo ha sollevato dalla ricerca di committenze, Franzen ha fatto coincidere anche la scrittura saggistica con la sua passione di birdwatcher: «Per me – ha annotato in «Cieli silenziosi», un saggio precedente a quelli raccolti in quest’ultimo libro – «andare in cerca di nuove specie volatili significa inseguire le tracce di una autenticità quasi perduta». Il fascino che gli tramettono gli uccelli, per la loro radicale estraneità e per il dono del volo che li rende potenziali «dominatori del mondo», fa riflettere Franzen sulla loro indifferenza al nostro destino, ai nostri costrutti mentali e alle nostre proiezioni nel passato e nel futuro, sebbene debbano fronteggiare perdite ingenti, se è vero, come si legge nelle accuratissime stime riportate dallo scrittore americano, che la popolazione degli uccelli marini è crollata del settanta per cento negli ultimi sessant’anni, e «un numero sproporzionato di specie è a rischio di estinzione».
Sono considerazioni, queste, che Franzen si concede a margine di una commossa descrizione delle urie, una specie tenace, il cui comportamento si basa sulla dedizione: «Benché non manchino i casi di divorzio, in genere questi uccelli creano forti legami di coppia», annota. Inoltre, le urie si dividono equamente i compiti nelle diverse mansioni finalizzate alla riproduzione della specie, e sono capaci di covare, in mancanza di un uovo, anche un sasso. Ostinate e non particolarmente intelligenti, le urie spesso tardano a venire a patti con l’evidente morte del loro uovo, e continuano perciò a portargli nutrimento dal mare, e a covarlo, anche per ottanta giorni, prima di arrendersi.
Non c’è, nelle descrizioni di Franzen, l’ombra di proiezioni antropocentriche, c’è invece una contagiosa ammirazione per gli uccelli derivata da lunghe e informate osservazioni, in giro per il mondo. Di uno dei suoi viaggi – una crociera nella Penisola Antartica con avventuroso avvistamento del pinguino imperatore – racconta in alcune delle pagine più divertenti, che riportano l’entusiasmo di prammatica del capo spedizione della nave, i suoi piccoli imbrogli per illudere i milionari a bordo di avere raggiunto un determinato obiettivo, per esempio il varco del Circolo polare antartico, proprio all’ora in cui era lecito svegliarli e non prima; e i riepiloghi serali indefettibilmente sigillati dalla stessa domanda: «È stata una giornata fantastica o è stata una giornata fantastica?»
Franzen riconosce a se stesso l’indole di «pessimista depresso» ma anche «la capacità di ridere in tempi bui», una risorsa che condivide con gli amici incontrati via via, di cui non esita, appena ne ha l’occasione, a restituire ritratti generosi di elogi: qui i nomi noti ai quali si dedica sono due, William Vollmann e David Foster Wallace, entrambi scrittori che (a torto o a ragione) ritiene più dotati di lui.
Tra commozione e sobrietà
Avrebbero dovuto riunirsi per un viaggio in una destinazione improbabile, il Salton Sea, un lago morente a est di San Diego, «uno dei luoghi più puzzolenti e meno adatti al campeggio dell’intero paese»; ma Wallace detestava la vita all’aria aperta e non se ne fece niente. Così, passarono gli anni e i destini dei tre amici, che non si erano mai ritrovati, cambiarono direzione: Vollmann andò in un’altra città e allontanandosi non diede più notizie di sé, e Foster Wallace, come si sa, mise fine alla sua vita.
Non una sola sillaba che induca a sprofondare nelle pagine dei suoi ricordi, esce dalla scrittura di Franzen, in questo e in altri libri stabilmente in equilibrio fra commozione e sobrietà: di certo lo aiuta la sua intelligenza speculativa, ma ancora di più l’esercizio alla autocritica, che gli fa riassumere gli esiti imprevisti della propria scrittura in una frase sintomatica della scarsa indulgenza riservata a se stesso: «Cercare di scrivere una cosa compiuta, un saggio, mi aveva reso consapevole della sciatteria del mio pensiero».