Saffo e Mimnermo spariti insieme a oroscopi e libelli
Classici perduti Già nel IV secolo d.C. si prese coscienza che la letteratura antica si sgretolava: non solo quella di puro divertimento, ma anche la grande poesia epica e lirica...
Classici perduti Già nel IV secolo d.C. si prese coscienza che la letteratura antica si sgretolava: non solo quella di puro divertimento, ma anche la grande poesia epica e lirica...
Nel 367 il retore Temistio teneva un discorso in cui celebrava l’imperatore Costanzo II per la fondazione a Costantinopoli di una biblioteca di Stato. Lo scopo era quello, certo, di dare alla metropoli della pars orientale dell’impero romano una grande biblioteca pubblica; ma l’intento di Costanzo, sottolineato da Temistio, era soprattutto quello di salvaguardare, facendole trascrivere in nuovi libri, le opere letterarie del passato che si andavano perdendo «sgretolandosi nella memoria». È dunque il momento in cui nel mondo antico si prende coscienza della progressiva perdita dei testi antichi.
Oltre alla letteratura tramandatasi in forma scritta e ‘a rischio’, vi era stata anche una letteratura sommersa, nel senso di testi che non avevano mai avuto alcuna tradizione scritta o che, pur se affidati alla scrittura, avevano circolato in copie rare e talora solo per un limitato arco di tempo. Si pensi innanzitutto all’antica cultura greca prevalentemente orale, svincolata dal libro che, con la sua materialità poteva svolgere la molteplice funzione di fissare il testo, consentirne la circolazione mediante copie, trasmetterlo nel tempo e quindi renderlo fruibile a lettori sincronici e diacronici, innescare meccanismi di conservazione pubblica o privata.
Quale esempio significativo di questa letteratura orale mai emersa possono essere ricordati gli annuali cori ditirambici in Atene nel quadro delle Grandi Dionisie (almeno dal 509 a. C.): centinaia di esecuzioni i cui testi sono scomparsi per sempre insieme ai nomi dei loro autori. E lo stesso destino subì tanta altra produzione poetica di età arcaica e classica: poemi e cicli epici dedicati a miti e storie locali e perciò rimasti sepolti nei confini cronologici e territoriali d’origine, o i testi dei drammi rituali che rappresentavano vicende legate alle divinità, formule e testi segreti per le iniziazioni misteriche, ninne-nanne, o ancora, in età ellenistica, i mimi drammatici. Non diversamente avvenne nel mondo romano, dove forme di rappresentazione drammatica antiche, come atellane, fescennini e ludi scenici andarono persi.
Temistio non si riferiva certo alla letteratura orale sommersa, ma – fatto più inquietante – ad autori e opere destinati a perdersi anche se avevano trovato fin dalle origini, dal momento stesso della loro pubblicazione, adeguati canali di trasmissione scritta nelle forme librarie del rotolo e, più recentemente, del codice. E Temistio esplicita anche la ragione che incideva sulle perdite: la mancanza di una salvaguardia che, se per i grandi autori del passato era la loro stessa misura di eccellenza e quindi l’interesse anche dei privati colti a preservarne gli scritti, per gli autori minori non poteva essere che quella istituzionale, di cui Costanzo II si era fatto carico. In effetti, nel secolo IV d. C. – secolo centrale dell’antichità tarda – molte opere non solo si andavano perdendo, ma si erano già perdute in quantità massiccia, e altre sarebbero scomparse nei secoli successivi. Quali? Come? Perché? E quale la dialettica tra conservazione e perdita?
Quello che Virginia Woolf in età moderna ha chiamato il «lettore comune» è esistito anche nell’antichità greco-romana, almeno tra i secoli I a. C. – IV d. C. circa: un lettore cui «la natura non è stata prodiga di talento» quanto con il letterato o il critico e che «legge per il proprio piacere e non per impartire la sua cultura o per correggere opinioni altrui». Questo lettore si può riconoscere nell’individuo pepaideumenos metrios, «mediamente istruito», di cui Strabone dice che era attratto dalla lettura dei miti.
Ma questo lettore comune, oltre ai miti, leggeva molta altra letteratura ‘di intrattenimento’ o ‘di consumo’ che è andata quasi completamente persa. Si trattava di una letteratura che comprendeva componimenti poetici d’occasione, storia ridotta a biografie e concentrata in epitomi, trattatelli di culinaria e di sport, opuscoli per giochi e passatempi, opere erotiche, oroscopi, testi magici o per l’interpretazione dei sogni, ‘fumetti’. Vi era a Roma una letteratura di evasione e di puro divertimento, prodotta per i Saturnalia e i ludi Florales. O si pensi a certe letture erotiche come i Milesiaka di Aristide, infarciti di oscenità e che i militari portavano nel loro bagaglio, o come i molles libelli di Elefantide, corredati di illustrazioni sconce delle diverse pratiche sessuali.
Questa letteratura era destinata a inabissarsi, e di essa non restano che qualche testimonianza indiretta di varia specie o qualche frammento di papiro; e quest’ultimo è il caso di stralci di storie di Eracle ‘a fumetti’ emersi tra i papiri greco-egizi. Il lettore comune non aveva una ‘mentalità di conservazione’, possedeva al più qualche sparuta raccolta di libri, che magari passavano di mano in mano e poi si perdevano; né gli scritti che contenevano erano di qualità tale da assicurarne la trasmissione.
In questa letteratura di intrattenimento rientrava anche una narrativa fatta di situazioni tipiche, di psicologie schematiche, di sviluppi del racconto intricati e intriganti, di colpi di scena: il tutto innestato su una trama d’amore e d’avventura. Ma questa narrativa non era tutta del medesimo livello letterario, né la sua destinazione era univoca ma trasversale.
Vi erano romanzi, noti solo da miseri frammenti papiracei, come il «romanzo di Metioco e Paetenope» o il «romanzo di Sesoncosi» o i Phoinikika di Lolliano o il cosiddetto Satyricon greco e altri ancora, che trascinavano il lettore comune (e magari anche quello colto) con le loro «storie di lazzaroni, di pederasti, di sacerdotesse ruffiane e di nuovi ricchi sporcaccioni» (R. Queneau). Ma vi erano romanzi scritti in uno stile ben più elevato, come quelli di Eliodoro, le Etiopiche, e di Achille Tazio, Leucippe e Clitofonte; e questi si salvarono giacché divennero ‘modelli di stile’, tutelati perciò nel corso dell’età bizantina da trasmissione scritta e conservazione bibliotecaria. Non mancarono, tuttavia, anche curiosi espedienti per sottrarre i romanzi erotici, i più esposti alla condanna della morale cristiana, alla censura e alla perdita.
Lo storico ecclesiastico Socrate nel V secolo d. C. parla di Eliodoro come di vescovo della città tessalica di Trikka, e similmente il lessico bizantino Suda del secolo X menziona Achille Tazio come cristiano e vescovo; e dunque romanzi usciti dalla penna di vescovi erano incensurabili! E ancora, un celebre manoscritto della Biblioteca Laurenziana di Firenze, contenente, oltre ad Achille Tazio, i romanzi d’amore di Longo Sofista, Senofonte Efesio e Caritone, reca prima e dopo questa narrativa, scritti teologici, sì da celare il contenuto erotico del volume ed evitarne la distruzione.
Se si guarda al medioevo latino, furono le istituzioni ecclesiastiche o monastiche a salvare le opere erotiche di Ovidio. Pur se il religiosissimo Corrado di Hirsau nel secolo XII si chiedeva: «chi sano di mente potrebbe tollerare Ovidio che gracchia di amore sfrenandosi turpemente?», nelle scuole monastiche il poeta veniva letto come ‘maestro di lingua’ per l’apprendimento del latino, utile alla comprensione delle Sacre Scritture e dei Padri della Chiesa. A perdersi, invece, fu certa letteratura latina minore, in cui peraltro venne coinvolto e travolto anche il Satyricon di Petronio, di cui si conservano frammenti.
A perdersi erano anche autori e opere di qualità letteraria elevata. Una lista di autori greci ritenuti esemplari nei diversi generi letterari, compilata nel II-III secolo d. C. sulla base di selezioni risalenti a trattati e scuole di retorica, consente un approssimativo bilancio su quanto si è conservato e su quanto invece si è perso. Iniziando dai poeti, tra gli epici, Paniassi e Pisandro, menzionati insieme a Omero e a Esiodo, non sono che nomi; se si esclude Pindaro con i suoi epinici, dei nove lirici selezionati dai filologi alessandrini, compresa la celebre Saffo, non restano che frammenti; e così pure è avvenuto per elegiaci come Callino e Mimnermo e per giambografi quali Archiloco e Ipponatte; Acheo e Ione di Chio, richiamati tra i tragici insieme ai ben tramandati Eschilo, Sofocle ed Euripide, dovevano essersi persi già prima della tarda antichità, e così pure commediografi quali Cratino o Eupoli, mentre si erano salvati Aristofane e, per la commedia nuova, Menandro, ma solo fino al VI-VII secolo forse perché, ridotto a sentenze, non riuscì a superare questa data.
Quando si passi ai prosatori, molta oratoria si è conservata, giacché dei dieci oratori attici, nove si sono in varia misura tramandati, mentre solo Iperide è andato quasi del tutto perso; tra gli storici il tempo ha travolto Filisto, Eforo e Teopompo. Non toccò miglior sorte ad autori latini del periodo arcaico e del II secolo a. C. quali Nevio, Ennio, Cecilio Stazio, Pacuvio, Lucilio, tutti a noi noti solo da titoli e/o da sparsi frammenti delle loro opere; e delle numerose commedie di Plauto si sono salvate solo le 21 ritenute autentiche dall’erudito Varrone.
Varie le ragioni di queste perdite. La trascrizione di testi da libri in forma di rotolo a libri in forma di codice determinò la scomparsa di opere che non furono ‘trasferite’ o che non si ricompattarono in nuovi modelli librari (il codice poteva recepire i contenuti di più libri-rotoli); scritti molto estesi, soprattutto le opere storiografiche, subirono la perdita di molti dei libri di cui erano costituiti; autori e opere che non entrarono nei programmi di scuola o ne costituirono letture marginali non si giovarono di quella che fu la più potente salvaguardia di trasmissione dei testi, la continuità didattica; estratti ed epitomi finirono per sostituirsi alle opere originali; le trasformazioni della cultura determinarono l’abbandono di certi autori; gli accidenti della tradizione fecero scomparire manoscritti che erano talora gli unici a veicolare certe opere o parti di queste. E infine, paradossalmente, la conservazione stessa – quando selettiva, controllata, esclusiva, o chiusa, occulta, inerte – finì con il diventare una ‘conservazione in perdita’.
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