Si dice che lo sguardo di Ulrich Seidl sia «fascista». Operando così un’equivalenza fra il dispositivo del regista austriaco con la sua presunta ideologia. L’accusa di un fascismo estetico, formalistico, è quella che da sempre grava sul cinema di Seidl. Come se fosse reo di non amare i personaggi che filma (come se «l’amore» fosse una pre condizione imprescindibile per iniziare a filmare).
L’altra accusa, anche questa sorta da un equivoco, è che Seidl filmi come un entomologo. In realtà Seidl, come ha rivelato lui stesso durante un incontro, osserva il mondo da una prospettiva derivata dalla tradizione della frontalità della pittura cattolica. La figura umana al centro del mondo, enorme, che la circonda (sovrasta). Il senso della gettatezza dell’uomo e l’inevitabile senso dell’orrore che ne viene è tutto inscritto in questa percezione di un mondo, frutto di un’educazione cattolica e austriaca fortissima con la quale il regista ha sempre fatto i conti.

Seidl è come se restituisse l’«ideologia» di uno sguardo contemplando tutto quanto questa aveva precedentemente eliminato. Il dispositivo seidliano non è laico o neutro: l’origine è trascendentale ma l’oggetto dell’osservazione è terrena. Il cortocircuito fra questi due poli produce una tipologia di osservazione sgomenta e attonita, lontanissima da qualsiasi posizione politica. Ed è in questo snodo che s’annida l’equivoco del cineasta voyeurista, compiaciuto, crudele, razzista, «fascista».
Safari, l’ultimo film di Seidl in ordine di tempo a giungere nelle nostre sale dopo essere stato presentato l’anno scorso alla Mostra di Venezia, sembra essere pensato proprio per confermare i detrattori dell’austriaco nei loro pregiudizi negativi. Nel mettere in scena turisti austriaci in giro a caccia in una riserva organizzata da un austriaco in Sudafrica, Seidl pone al centro del suo film l’atto dell’uccidere senza nessuna dell’incertezze di un Oppenheimer e, soprattutto, senza la falsa coscienza di chi pur dialogando con assassini non abbandona mai il proprio campo.

Seidl, accettando che si possano uccidere animali allevati per essere uccisi da borghesi bianchi in cerca dell’emozione della caccia grossa, si mette al centro di un’industria dell’uccisione come intrattenimento che si rivela come un’ agghiacciante parodia dell’ideologia naturista e naturale così ben analizzata da Mosse in Le radici culturali del Terzo Reich. La società dei consumi e il primato neoliberista si offrono come riprodotti su scala ridotta, mentre in lontananza balugina lo spettro nero dell’eugenetica nazista che si manifesta pienamente nel discorso finale del proprietario della tenuta. «L’uomo è il vero Male», sostiene, lasciando intuire che un’eventuale sparizione del genere umano non lo turba più di tanto. Seidl, di fronte a questa ipotesi di lettura del suo film, si schermisce e si limita a suggerire che la sua intenzione è osservare cosa fosse restato della mitologia della caccia oggi. Un profilo volutamente basso rispetto a una pratica filmica nella quale l’osservazione documentaria s’innesta in una dimensione di parziale (ri)creazione nella quale i protagonisti si offrono allo sguardo della macchina da presa apparentemente come inconsapevoli. Ed è proprio questo il punto, secondo i detrattori, nel quale la tenuta etica di Seidl sembra affievolirsi: usare i protagonisti contro le loro intenzioni e aspettative.

In realtà il regista offre alla contemplazione dello spettatore non le immagini dei suoi protagonisti ma ciò che le immagini rivelano, ossia «l’idea» della dignità che questi hanno di se stessi. Non dirige la loro immagine, e anche quando sembra entrare maggiormente in contatto con loro non vi è mai un abuso autoritario ma solo un mero registrare l’idea della rappresentazione e dell’immagine che questi corpi hanno di sé. Non a caso nel macello dove i bianchi probabilmente non mettono mai piede lavorano gli africani smembrando gli animali uccisi e cibandosi poi dei loro resti. Immagini silenziose che rivelano i rapporti di forza in campo.