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Sacrificio, struttura portante dell’immaginario nei Canti leopardiani

Sacrificio, struttura portante dell’immaginario nei Canti leopardianiJean-Baptiste Roman, Nisus et Euryalus (particolare di Eurialo), gruppo esposto al Salon del 1827, Parigi, Louvre

Classici italiani Mentre la Guanda «Fondazione Bembo» completa il commento del compianto Luigi Blasucci, Franco D’Intino «ausculta» All’Italia, A Silvia e i frammenti finali nel saggio L’amore indicibile, da Marsilio

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 6 marzo 2022

«I grandi poeti scendono negli abissi dell’inconscio collettivo, e ne risalgono con misteriosi frammenti di luce che ci abbagliano». Prendiamola sul serio, questa affermazione, al momento di affrontare la più recente prova leopardiana di Franco D’Intino, L’amore indicibile Eros e morte sacrificale nei Canti di Leopardi (Marsilio «Saggi», pp. 225, € 21,00). Altrove D’Intino ha condotto alcune notevolissime imprese di edizione e commento dei testi leopardiani (basti pensare all’inesausta cura prestata al Leopardi traduttore degli antichi, dal prezioso volumetto del 1999 che raccoglie i testi lirici voltati in italiano da Giacomo – Poeti greci e latini, edito da Salerno – fino al ponderoso volume, pubblicato nel 2012, che raccoglie i Volgarizzamenti in prosa, uscito per Marsilio). In questo nuovo lavoro lo studioso procede con un passo che pure è molto suo, quello più strettamente saggistico. E l’aggettivo andrà inteso in senso stretto: D’Intino – che non a caso ha un debole per Montaigne – ha costruito questo libro tentando una strada nuova, senza affidarsi a un metodo prêt-à-porter o a una tesi precostituita. Ha soprattutto cercato di ascoltare Leopardi e la sua scrittura, dai risultati più noti fino a certe zone più in ombra. Al centro della sua analisi stanno dunque tre testi di diverso impegno: la canzone All’Italia (1818: è la prima uscita pubblica del Leopardi poeta), la grande canzone A Silvia (1828) e i meno frequentanti frammenti che chiudono i Canti.

Il registro eroico e quello erotico
Come già in un precedente studio leopardiano di D’Intino, La caduta e il ritorno (Quodlibet), proprio mentre si esercita in una sottile, sensibilissima ispezione del singolo testo poetico, questa esplorazione ha tuttavia un obiettivo molto più ambizioso, cioè l’individuazione di una struttura portante dell’immaginario di Leopardi: il sacrificio. Basterà prendere, per capirsi, la prima lirica della raccolta poetica leopardiana, la già citata All’Italia. Sotto la lente dell’interprete questa si mostra non solo o non tanto un testo patriottico (nel quale in effetti il giovane brama immolarsi per la nazione: «io sol combatterò…»): diventa soprattutto un passaggio fondamentale per osservare la formazione psicologica del soggetto e un’ottima occasione per misurare come il registro eroico e quello erotico entrino in pieno contatto. Ecco, allora, All’Italia riletta anche a partire dallo scambio epistolare con Pietro Giordani, con il suo linguaggio acceso di un pathos che avrà pochi analoghi nell’intero arco dell’esperienza leopardiana. Oppure, valorizzando un episodio antico che non si usa sfruttare a questo riguardo, cioè la storia di Eurialo e Niso, i due giovani eroi e sodali, la cui storia è narrata in un libro carissimo a Giacomo, l’Eneide virgiliana (in particolare, la memoria poetica di Leopardi si sofferma, nota D’Intino, sulla gara di corsa del V libro, sulla pozza di sangue sacrificale su cui appunto scivola Niso).
Dieci anni più tardi, il tema del sacrificio assumerà tutt’altra forma, permeando uno dei testi più memorabili dell’intera tradizione lirica italiana, A Silvia. Un canto che segna «lo spostamento dell’energia sacrificale – scrive D’Intino – nella sfera femminile della vergine-germoglio, Core», una sorta di controfigura della fanciulla morta giovane e compianta nel canto del 1828. Per il tessuto antichissimo di A Silvia Leopardi mobilita allora anche certe sue memorie e letture eleusine (si pensi a tutto l’arsenale classico squadernato in un testo erudito giovanile, il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, che lascerà poi tracce profonde nel Leopardi più maturo). Anche qui, come per la lirica del ’18, ad accompagnare lo studioso sono le letture fondative dell’erotica leopardiana, soprattutto il suo ambiguo corpo a corpo con Platone, specialmente con un dialogo su cui D’Intino si era già chinato, riconoscendone un ingrediente decisivo per il Leopardi delle Operette morali: il Fedro.
Gli eroi-martiri in All’Italia, il sacrificio di Silvia, infine il sacrificio di sé stessi e del proprio stesso passato da parte dell’io: a quest’ultimo aspetto è dedicata la terza parte dello studio, nel quale D’Intino valorizza gli ultimi cinque testi dei Canti come una sorta di appello al lettore a godere del tempo effimero e a inseguire un pur inafferrabile piacere. Questo drappello di liriche viene così interpretato come la vera chiusa dei Canti – nonostante la loro collocazione in appendice –, coerente con il percorso ideologico disegnato negli anni da Leopardi. Non è affatto, quella di D’Intino, una posizione critica scontata, forse nemmeno maggioritaria: tale è il peso che la tradizione degli studi è solita attribuire, al contrario, a una lirica come La ginestra, indicata solitamente come il vero sigillo del libro leopardiano, con il suo afflato solidaristico (la «social catena») e il suo impianto formale imponente.

La ginestra testamento per il futuro
È quanto emerge, per esempio, nel secondo volume del commento ai Canti della Fondazione Pietro Bembo-Ugo Guanda Editore (pp. 448, € 39,00), procurato dal compianto Luigi Blasucci (il primo volume, che si chiudeva all’altezza della canzone Alla sua Donna, lo studioso lo aveva congedato nel 2019), e ora finalmente disponibile. Per Blasucci è appunto La ginestra a campeggiare, rappresentando questa un «testamento per il futuro», come si legge nel cappello al testo, e insieme la «degna conclusione» di un intero «itinerario poetico». Certo la poesia dedicata al fiore del deserto gioca un ruolo-chiave nella parabola poetica leopardiana. Eppure sottovalutare i frammenti finali, con la loro morale anticristiana e la loro scarsa fiducia in una poesia foscolianamente eternatrice, forse vuol dire perdersi qualcosa di Leopardi. Vuol dire non considerare la sua eccezionalità, nel panorama del primo Ottocento europeo, la sua capacità di mantenersi estraneo a qualsiasi umanesimo ormai postumo, a qualsiasi retorica della gloria: in bilico fra desiderio acceso e goût du néant, il Leopardi di D’Intino è invece un Leopardi più inquieto, più coraggioso.

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