Wheel of Fortune and Fantasy è il titolo internazionale dell’ultimo lavoro di Ryusuke Hamaguchi, regista giapponese fra i più interessanti e dal tocco più distintivo tra quelli attivi in questi primi due decenni del millennio. Caso, coincidenze e immaginazione – una traduzione più letterale del titolo giapponese – sono elementi che contraddistinguono il cinema del filmmaker nipponico dai suoi esordi nel 2008 con Passion fino alle sue opere più recenti, come il giustamente celebrato Happy Hour o Asako I & II. Senza dimenticare la trilogia sul terremoto e lo tsunami che proprio dieci anni fa sconvolsero il Giappone nord-orientale: tre documentari firmati assieme a Ko Sakai che però esplorano la tragedia in maniera trasversale attraverso parole, suoni e ricordi.

Alla Berlinale online – dove ha vinto il Gran premio della giuria – Hamaguchi ha portato un lavoro che si compone di tre episodi narrativamente slegati l’uno dall’altro: Magic, dove due amiche si ritrovano ad amare lo stesso uomo; Door Wide Open, storia di una studentessa fuori corso che cerca di adescare un professore; e Once More, in cui due vecchie compagne di scuola si ritrovano per caso dopo tanto tempo. Il filo conduttore di queste tre storie sono certamente le tematiche affrontate – le inaspettate e quasi magiche coincidenze che la vita ci offre – ma soprattutto la bravura nel dare forma, attraverso l’eccezionale lavoro fatto con e dagli attori, a una prerogativa del cinema di Hamaguchi: una realtà dove le infinite possibilità contenute nel presente di vite quotidiane tutto sommato anonime, si manifestano in modo tanto malinconico quanto abbacinante.
Abbiamo conversato con il regista a proposito del suo film.

In passato aveva già realizzato dei corti e mediometraggi, ma questa è la prima volta che affronta il formato del film a episodi, ci potrebbe parlare di questa scelta?
Alcuni anni fa avevo realizzato, confrontandomi e lavorando con attrici ed attori, il mediometraggio Heaven is Still Far Away, da una parte come una sorta di ripasso per Happy Hour e dall’altra come preparazione per Asako I & II. Questo mi è tornato molto utile anche perché ho saputo trovare un mio ritmo e mia una cadenza intervallando la realizzazione di lungometraggi con quella di corti e mediometraggi, cosa che penso continuerò a fare anche in futuro. Questo formato però ha il problema di non avere uno sbocco vero e proprio: è molto difficile trovare una vera distribuzione per questi lavori, così da farli circolare. La soluzione che ho provato questa volta è stata quella di accorparli in un film ad episodi e quindi di farli diventare di fatto un lungometraggio che possa essere distribuito.

Rispetto ai lungometraggi, il formato su cui ha lavorato in questa occasione apre delle diverse possibilità espressive?
Certo, tutti i film, lunghi o corti che siano, devono avere una fine, un punto in cui si interrompono lasciando lo spettatore con una forte sensazione di aver visto un mondo. E secondo me i cortometraggi hanno la capacità di lasciare un’impressione più intensa e vivida in quanto offrono solo un breve sguardo su un determinato mondo. Inoltre con una forma più breve si possono mostrare anche fatti più rari, eventi di cui non è certa l’esistenza, lasciando il tutto in sospeso e senza approfondire troppo.

In ognuno dei tre episodi che compongono il film ci sono almeno tre scene di forte impatto estetico ed emotivo. In «Magic» la lunga parte iniziale con le due donne in taxi, in «Door Wide Open» la scena dove la protagonista visita il professore. E in «Once Again» la sequenza finale con le due donne che si abbracciano. Ognuna di queste scene si serve di stili di recitazione assai diversi, ma in tutte il limite fra ciò che nella storia è reale e ciò che è recitato è ambiguo e fluido. Come ha lavorato con gli attori per creare tutto questo?
In parte questa ambiguità è voluta, in parte però cerco anche di creare una «chiara ambiguità» per così dire: voglio cioè che resti qualcosa di definito, qualcosa di cui possano esistere varie interpretazioni. La cosa affascinante è che l’atto stesso del recitare è ambiguo, e nelle tre scene citate le attrici stesse, durante le loro performance, si saranno sicuramente accorte dell’ambiguità della domanda «che cosa è reale?». Una strategia per creare questa ambiguità è stata in prim o luogo quella di scriverla e inscriverla nelle scene stesse, portando l’atto del recitare all’interno della narrazione. Inoltre non potevo chiedere agli attori di lavorare mettendo in risalto il fatto che stessero recitando: si trattava piuttosto di ottenere una recitazione diafana che, come nel caso delle due donne in taxi, potesse in seguito – quando più avanti nella storia ci vengono rivelate altre informazioni – essere letta in modo diverso. È poi importante che nella performance ci sia qualcosa di nascosto, come succede ad esempio nel secondo episodio dove anche la protagonista, Nao, capisce di non sapere esattamente il perché sta facendo quello che sta facendo, generando così un senso di sfasamento nella scena.

Il terzo episodio è ambientato in un mondo dove un virus informatico ha reso inutilizzabile internet, ci potrebbe dire di più sui motivi di questa scelta?
I primi due segmenti li ho girati nel 2019, mentre l’ultimo nel 2020. Inizialmente avevo programmato le riprese per la primavera, ma la pandemia ha sconvolto tutti i piani e abbiamo finito per girarlo in estate. La sceneggiatura era già completata, ma un evento così grande come la pandemia mi ha portato a ritoccarla: non potevo non tenere in considerazione l’effetto che il virus ha avuto su tutti noi. Ho deciso così di ambientare la storia in una sorta di mondo parallelo dove internet non è più utilizzabile, un mondo sconvolto da un diverso tipo di calamità.

Una domanda sulla situazione dei cinema indipendenti in Giappone al tempo della pandemia, luoghi culturali che a lei stanno molto a cuore e per cui sta lottando con varie iniziative come il Mini-Theater Aid (crowdfunding che l’anno scorso ha aiutato questi piccoli cinema a sopravvivere, e che è ancora attivo con varie iniziative di sostegno, ndr). Qual è il suo rapporto con queste sale indipendenti?
Per me sono state un luogo dove scoprire film completamente diversi da quelli targati Hollywood o dalle serie televisive a cui ero abituato, film che paragonati a quelli che ero solito vedere fino a quel momento erano considerati «noiosi». Vedendo questi film «noiosi» nello spazio dei piccoli cinema indipendenti ho scoperto un nuovo tipo di sensazione, è come se il mio corpo fosse cambiato, e ho imparato ad apprezzare un diverso tipo di cinema. Ora i miei film qui in Giappone sono proiettati principalmente in queste sale indipendenti e io sono in contatto con tutte le persone che ci lavorano. È per questi motivi che sostengo attivamente progetti come il Mini-Theater Aid.