Ryan Murphy: «La storia dei ball, dove gli eroi erano gli emarginati»
Intervista Lo sceneggiatore e regista racconta la sua nuova serie tv, «Pose», nella New York Lgbt degli anni ottanta
Intervista Lo sceneggiatore e regista racconta la sua nuova serie tv, «Pose», nella New York Lgbt degli anni ottanta
L’emancipazione metaforica di personaggi outsider, ai margini della società mainstream, è tema ricorrente nelle creazioni di Ryan Murphy: serie come Glee e le antologie di American Horror Story. Queste ultime, prodotte con quella che è praticamente una compagnia stabile soprattutto di attrici (Jessica Lange, Kathy Bates, Sarah Paulson) trattano di «freaks» da baraccone, streghe, vampiri e una galleria di personaggi eccentrici e anticonformisti. Anche le Bette Davis e Joan Crawford di Feud sono rappresentanti in qualche modo dell’impietosa condizione femminile delle dive dello star system, mentre Glee è diventato programma cult per le tematiche gay giovanili.
Un curriculum di commento sociale in chiave melodrammatica che di recente ha preso un taglio più specificamente anti trumpista: la settima stagione di American Horror Story (Cult) per esempio, era la rappresentazione «horror» del trauma nazionale accusato dall’America democratica – e in particolare dall’America gay – con l’elezione di Donald Trump.
Con Pose – l’ultima serie prodotta dalla F/X, – Murphy si avventura sul terreno della sottocultura dei «balls» degli anni 80, I «gran balli» in cui in particolare transessuali afro americani e ispanici si sfidano in vistose sfilate e competizioni di ballo. Gli esuberanti ed estemporanei cabaret, con radici che risalgono alla Harlem renaissance degli anni venti, hanno preso particolare piede negli anni ‘80 quando la moda ed il «voguing» nati nella cultura Lgbtq di New York hanno influenzato lo stile di artisti mainstream come Madonna e successivamente Beyonce.
Pose è un Saranno famosi dal retrogusto politico che è sia archeologia sociale che feuilleton sulle ambizioni artistiche dei più emarginati nella New York in cui emergeva contemporaneamente, a Trump tower e dintorni, quella commistione di volgarità e ricchezza fieramente ostentata, che di lì a 30 anni (dopo il reality berlusconiano) avrebbe finito per impadronirsi della cultura – e del potere politico – del paese. Abbiamo incontrato Murphy a Los Angeles.
Ogni riferimento politico è intenzionale dunque?
Direi che la mia stessa carriera è un atto politico. Da uomo gay, questa storia in particolare mi interessava perché – e credo che le protagoniste trans sarebbero d’accordo – per noi non esiste una «Storia» e proprio per questo dobbiamo cercare di raccontarla. Quando avevo girato The Normal Heart (Tv movie sull’epidemia di Aids, ndr) ricordo che tanti giovani gay vennero a dirmi che non conoscevano nulla di quella storia. È normale perché siamo un segmento sociale invisibile, ci accontentiamo di elemosine. Motivo in più per ripercorrere quest’altro pezzo di storia rimossa: ho cercato di farlo con un film stile anni ‘80, come Saranno famosi o Flashdance, ma popolato di personaggi emarginati, quelli che non hanno mai avuto un’ opportunità, messi per una volta al centro della storia come eroi ed eroine. È una cosa che non avevo mai visto prima e sono felice che vada in onda.
Anche in questa storia entra l’Aids.
In una delle prime scene una delle protagoniste femminili, Bianca, viene diagnosticata sieropositiva, e poi seguiamo il suo tragitto per sei, sette anni. E ricordate che le prime vere terapie non furono disponibili fino al 1996. Bianca fa parte di quel gran numero di persone dimenticate cui invece dovremmo rendere omaggio e ricordare. Personalmente so che non avrei una carriera senza di loro. Sono arrivato per la prima volta a New York nell’anno in cui è ambientato Pose: ricordo di aver incontrato molti uomini sieropositivi e di aver avuto una gran paura. Per lungo tempo ho vissuto pensando che anch’io sarei potuto morire in qualsiasi momento. Il fatto che sia sopravvissuto e possa oggi raccontare le loro storie rappresenta qualcosa di molto potente per me, mi rendo conto della mia fortuna e in qualche modo lo faccio per tutti quelli che invece non ce l’hanno fatta.
Vi siete rivolti a dei consulenti?
Si, alcuni di loro sono leggende dell’ambiente dei ball. Molti sono reduci di Paris is Burning (il doc del 1990 di Jennie Livingston sui balls newyorchesi, ndr), che ho incontrato quando ho iniziato il progetto anni fa. E molti di loro appaiono nella serie tv, in veste di giudici dei concorsi. Tanti membri del cast sono invece protagonisti delle ballroom attuali e ci hanno aiutati con i loro consigli. È stato un meraviglioso processo di collaborazione, nel tentativo di essere il più autentici possibile. Naturalmente non si tratta di un documentario, ma credo che siamo riusciti a rievocare lo spirito di solidarietà che animava i ball: spazi sicuri che permettevano a quelle persone di essere autenticamente se stesse in un mondo che invece non le accettava.
Conosceva bene quell’ambiente?
È un mondo che mi affascina da tanto tempo, e per questo per me si tratta di un progetto molto importante: ho cominciato a lavorarci nel 2006. Mi sento molto vicino a questa comunità – e ancor più oggi, con Trump presidente – alla quale ho devoluto tutti i guadagni, trovo giusto usare questa serie come incentivo politico. E da ragazzino gay dell’Indiana arrivato fin qua mi sembra anche giusto «restituire» qualcosa.
Farebbe una serie sul movimento #MeToo?
Credo che chiunque voglia sviluppare quest’idea debba farlo con molta attenzione. Perché credo che in caso dovrebbe trattarsi di un progetto fatto – scritto, prodotto e girato – da donne. Tocca a loro parlare ora.
«Pose» invece è una storia personale per lei.
Credo che per molti versi il mondo sia pronto. Credo sia giunto il momento di sfondare alcune porte e cambiare il modo di pensare della gente. E la televisione può farlo. Se ti innamori di un personaggio televisivo, in un certo senso diventa come un tuo amico, che può influenzare le tue opinioni e il tuo punto di vista sul mondo. Abbiamo visto con Glee, Modern Family o Will and Grace l’impatto che un programma tv che può avere, e credo che Pose abbia lo stesso potenziale, e che gli uomini e le donne che lo interpretano possano diventare delle star. È una possibilità che mi entusiasma, non solo per quanto riguarda i miei lavori ma in generale, e credo valga la pena battersi per questo, specialmente in questo momento.
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