Quando vogliono prendere in giro i cugini dall’altro capo del mare di Tasmania, gli aussies danno loro dei pecorai. Sebbene il numero di pecore in Nuova Zelanda negli ultimi trent’anni sia calato sensibilmente, passando da una media di 22 a 6 pro-capite, la figura del kiwi intento a pascolare ovini e a tosare lana è sempre di moda. Di rimando, i neozelandesi amano ricordare ai loro dirimpettai le loro poco nobili origini: fu infatti una colonia penale, istituita nel 1786 a Botany Bay, dove ora sorge Sydney, il primo stabile insediamento di bianchi in quel continente allora quasi sconosciuto. Era feccia della peggior risma, in buona parte condannata all’ergastolo e spedita laggiù a spezzarsi la schiena nelle miniere. Frizzi e lazzi abbondano e rimbalzano da una sponda all’altra.
In realtà neozelandesi e australiani sono come quei parenti che un po’ si detestano ma che non possono fare a meno l’uno dell’altro. Rivali sì, separati anche, nemici mai.
Anche nel rugby la loro rivalità ha radici antiche. E’ dal 1931, anno in cui Charles Bathurst, primo visconte di Bledisloe e governatore generale della Nuova Zelanda, decise di mettere in palio una splendida coppa d’argento, che le due nazioni si sfidano su un campo da rugby. Ma se il rugby neozelandese si identifica in tutto e per tutto con il rugby union, vale a dire la versione che si gioca in quindici, e con gli All Blacks, il brand sportivo più famoso del mondo; per gli australiani le cose cambiano e l’union viene ben dopo l’Aussie Rules (il football australiano che si gioca su un campo ovale e con regole ibridate), e il Rugby League, la versione a tredici. In materia di sport, gli aussies sono più eclettici dei kiwis. Ma veniamo alla finale di oggi (Skysport, 17.00). All Blacks e Wallabies non si sono mai affrontati con in palio il titolo mondiale: la sfida odierna è dunque inedita nella storia della William Webb Ellis Cup. Gli australiani hanno vinto la coppa due volte (1991 e 1999), e così i neozelandesi (1987 e 2011), ma se i primi hanno sempre conquistato la coppa andando a vincere vinto nell’emisfero Nord, i secondi hanno vinto soltanto quando il torneo si è disputato a casa loro. Entrambi hanno perso una finale: gli All Blacks quella celeberrima del 1995 contro gli Springboks, i Wallabies quella del 2003, a Sydney, contro gli inglesi. Quest’anno le due squadre si sono affrontate due volte, nell’International Championship: una vittoria a testa. Un equilibrio perfetto. Eppure i pronostici sono a favore della Nuova Zelanda. La vittoria degli All Blacks è quotata 1,40; quella dei Wallabies 3,40. La ragione è semplice: i tuttineri appaiono come una formazione senza punti deboli, che negli ultimi quattro anni ha perduto solo tre match e che dall’inizio del torneo è andata migliorando partita dopo partita. La Nuova Zelanda ha messo in fila Argentina, Namibia, Georgia e Tonga nel girone preliminare, poi ha distrutto la Francia nei quarti e infine ha sconfitto gli Springboks in una semifinale non priva di insidie.
Dall’altra parte, l’Australia ha vinto il suo «girone di ferro», battendo Galles, Figi e Uruguay e eliminando l’Inghilterra, esibendo il gioco più brillante del torneo. Ma nei quarti si è «incartata» contro la Scozia, rischiando di essere eliminata e vincendo con un solo, contestato punto di scarto. In semifinale ha poi avuto la meglio sui Pumas argentini. La brillantezza iniziale si è un po’ appannata, non la determinazione nella difesa del risultato.
Giocatori chiave? Dan Carter e Aaron Smith, ovvero la coppia mediana più forte del momento, tra gli All Blacks. David Pocock, Michael Hooper e Scott Fardy tra i Wallabies, vale a dire la più straordinaria terza linea di questo mondiale, tre furie assatanate nei punti di incontro, capaci di scavare e rubare palloni nei più immani grovigli di membra.
Punti deboli? L’indisciplina neozelandese nei momenti iniziali delle partite; le amnesie, pericolosissime, del regista australiano Bernard Foley, il regista australiano. Un’incognita l’esito del duello tra le due mischie chiuse, che sulla carta si equivalgono. E nei calci piazzati Carter finora è stato assai più preciso del suo rivale.
Sarà un match tattico e probabilmente sarà l’equilibrio mentale a deciderne le sorti. Le qualità difensive saranno certamente, e ancora una volta, essenziali: mai nella storia della coppa del mondo si erano viste trincee tanto guarnite e tale ferocia nel contendere gli spazi vitali. A questi livelli la declinazione del verbo «difendere» va ormai di pari passo con la perfezione e l’errore si paga carissimo. Arbitra la finale l’iconico gallese Nigel Owens, il più bravo di tutti i direttori di gara. Uno spettacolo nello spettacolo: Owens è autorevole e conosce perfettamente non solo le regole del gioco ma le caratteristiche di ciascun atleta in campo. Il suo interloquire è ormai uno dei siparietti più attesi e la frase «this is not soccer» (questo non è il calcio), rivolta a quei giocatori che abbozzano una protesta, è tra quella più amate dai tifosi di rugby. Owens è inoltre il più celebre tra i personaggi dello sport ad avere pubblicamente dichiarato la propria omosessualità, gesto di fronte al quale l’intero mondo del rugby professionistico non ha battuto ciglio.