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Rufus Wainwright, le regole di una voce

Rufus Wainwright, le regole di una voce

Musica «Unfollow The Rules», il nuovo album ritardato dal lockdown unisce in dodici capitoli romantiche ballads e ironia

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 22 agosto 2020

Ve lo ricordate il baroque-pop? Smarrite per quasi un decennio, le sue impronte riappaiono, nitide e levigate, come tracce di uno dei suoi più valorosi alfieri. Del redivivo genere Rufus Wainwright, quarantasette anni il 22 luglio, osserva con zelo quelle regole che lui stesso ha contribuito a promulgare. A dispetto del titolo, Unfollow The Rules, con cui al pop fa ritorno dopo Prima Donna (2015), Take All My Loves: 9 Shakespeare Sonnets (2016) e Hadrian (2018), melodramma su libretto di Daniel MacIvor.

«Non seguire le regole». Bizzarro leggerlo proprio sulle mascherine indossate dai suoi musicisti, come lui in vestaglia di raso, durante il recente battesimo dell’album in live streaming. Edonismo domestico e socialmente distanziato. Piano, chitarra, quartetto d’archi, per una première in cui la stessa musica è ricoperta soltanto da un leggero velo, spogliata dalla stratificata produzione di Mitchell Froom.
Atteso già lo scorso aprile, Unfollow The Rules si è ritrovato fermo ai box a causa del lockdown lasciandosi pregustare attraverso una nutrita serie di singoli. Trouble In Paradise, uscito nell’ottobre 2019, apre il sipario sui dodici capitoli dell’album. La voce di Rufus, all’apice della maturità, si staglia su un arrangiamento che introduce la texture dell’intera opera, tanto per restare in tema tessile. Altrettanto dicasi per Damsel In Distress, omaggio a Joni Mitchell il cui sound guarda piuttosto alle produzioni di Phil Spector dei primi anni Settanta.
La title-track apre l’ampia parentesi di ballads, bagnate da quella luce di Broadway in cui Rufus forse indulge un po’ troppo, abbandonandosi agli slow pace di Romantical Man, Only The People That Love e This One’s for the Ladies (That Lunge!).

A DARE la scossa ci pensa You Ain’t Big, satira sull’industria musicale disposta a incoronare soltanto chi conquisti il cuore dell’America. Alabama, North Carolina, Kansas, «Tutti luoghi coinvolti in questo periodo terribilmente turbolento», osserva Wainwright riferendosi alle rivolte seguite all’omicidio di George Floyd. Nuovi significati per un brano il cui video vintage allude alla persistente disuguaglianza tra bianchi e afroamericani.
Le ariose melodie sostenute da archi, fiati e cori, tornano in Peaceful Afternoon, atto d’amore nei confronti del marito Jörn, mentre Hatred, fondata su solidi ostinati pianistici, ripropone le peregrinazioni di Rufus attraverso il circolo delle quinte. Gli ascoltatori più attenti le ricorderanno in Going To A Town (da Release the Stars, 2007).
Chiude il solco Alone Time, già uscita con un video firmato da Josh Shaffner utilizzando disegni dello stesso Wainwright. Un finale alla Brian Wilson, da cui lo distanziano quelle dissonanze che, citando Froom, «non dovrebbero funzionare, ma lo fanno».

DODICI capitoli, con protagonista assoluta la voce tenorile di Rufus che, in alcuni passaggi, continua a ricordare certe sfumature timbriche e certi portamenti di Thom Yorke. Ben presente anche il suo piano, sempre leggibile attraverso le pur corpose velature sonore dell’orchestra e di una band in cui spiccano le chitarre di Blake Mills e la batteria del mostro sacro Jim Keltner.
Dodici capitoli che sono un prologo, per un secondo tempo di carriera che il nordamericano si augura ricco come quello dei suoi grandi mentori: «Leonard Cohen ha realizzato The Future, Sinatra è diventato Sinatra a 40 anni, Paul Simon ha pubblicato Graceland».
«C’è una gran fetta del mio pubblico – conclude Rufus, – che sarà molto eccitata di avere un nuovo disco pop, ed è stata molto paziente». Una pazienza finalmente ricompensata.

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