Rubens, l’Antico si scioglie nell’epica barocca
Pieter Paul Rubens, "Prometeo incatenato", Philadelphia Museum of Art
Alias Domenica

Rubens, l’Antico si scioglie nell’epica barocca

Galleria Borghese di Roma "Il tocco di Pigmalione. Rubens e la scultura a Roma", a cura di Francesca Cappelletti e Lucia Simonato. I soggiorni a Roma di Pieter Paul fra 1601 e 1608 con il loro avere e dare (statuaria classica, Bernini) in una mostra dai molti fuochi e qualche difficoltà
Pubblicato 10 mesi faEdizione del 26 novembre 2023

Il tocco di Pigmalione Rubens e la scultura a Roma, alla Galleria Borghese fino al 18 febbraio, a cura di Francesca Cappelletti e Lucia Simonato (catalogo Electa), sebbene non sia monumentale (anzi: meno di cinquanta pezzi, tra disegni, dipinti e sculture), come è giusto in un contenitore di quel tipo, è una mostra dalle molte anime, che il titolo cerca di tenere insieme.

Il primo focus è senz’altro il rapporto con l’Antico, già oggetto di una recente mostra del Getty (2021) – con cui questa condivide la scelta di diversi prestiti –, indagato qui però soprattutto attraverso i disegni che Rubens eseguì nel corso dei suoi soggiorni a Roma compresi tra il 1601 e il 1608; queste date fondamentali non sono riportate nel titolo, forse perché molti dei dipinti esposti sono in realtà successivi.

Pieter Paul Rubens, “Agrippina e Germanico”, Washington, National Gallery of Art

Ma se anche l’Antico non è menzionato esplicitamente nel titolo è perché un altro aspetto cruciale indagato dalla mostra è quello del rapporto con Bernini, e quindi con la scultura moderna. Era purtroppo molto difficile presentare al pubblico sia il primo sia il secondo tema. Tutte le sculture già in collezione Borghese che Rubens copiò sono approdate a Parigi: il Louvre le prestò per un’irripetibile mostra del 2011 (I Borghese e l’Antico), e in questa occasione è stato concesso solo un gruppo delle Tre Grazie che Rubens non copiò in un disegno, e che non presenta vere tangenze con il suo dipinto raffigurante quel tema presente in mostra.

Bernini era solo un bambino quando Rubens lasciò per sempre Roma, e Gian Lorenzo sembra non lo menzionasse mai, nemmeno a Parigi, di fronte a Chantelou, che tenne un diario oggi celebre (1665). I presumibili rapporti a distanza tra i due artisti possono essere affrontati magari in un saggio (quello della Simonato), ma nelle sale della Galleria potevano essere evocati quasi unicamente attraverso il confronto fra il Gruppo bacchico di Bernini del Metropolitan Museum, anch’esso concesso alla Borghese per una grande rassegna recente (Bernini del 2017; e in realtà anche nel 1998) ma che non è ora in mostra, e una delle pale che Rubens dipinse nel 1601-’02 per Santa Croce e che sono poi finite a Grasse, in Francia: riportare a Roma almeno una di queste tavole fondamentali (che in quella chiesa in Provenza non si vedono granché bene) sarebbe stato un grande punto di forza di questa mostra, ma evidentemente non è stato possibile farlo.

Detto questo, la mostra si apre, nel grande salone d’ingresso, con due dipinti eccezionali, per impatto visivo e pregnanza critica in rapporto ai temi suddetti. Il Prometeo incatenato di Filadelfia (1611-’12) e La morte di Adone di Gerusalemme (1614 circa) illustrano bene la persistente influenza dell’Antico, inteso come modello supremo per la raffigurazione di corpi grandiosi, statuari, spesso ripresi in posizioni drammatiche o comunque difficili (sebbene il titolo di questa sezione, Il mito del Barocco, alluda a massimi sistemi che sono qui solo suggeriti). Si tratta di un discorso che viene poi portato avanti, rapsodicamente, in altre sale, sia del pianterreno sia del primo piano, in un difficile ma stimolante dialogo con i capolavori eseguiti per il cardinale Scipione da Bernini, soprattutto il Plutone e Proserpina – bello il confronto con il Torso del Belvedere copiato da Rubens –, laddove l’Antico della raccolta Borghese fa sempre solo da sfondo alla mostra, non essendoci nessun altro pezzo che permettesse almeno un suggestivo accostamento degli emozionanti disegni e dipinti di Rubens con copie o citazioni dai Nobilia opera.

Forse qualche prestito in questo senso sarebbe stato utile: in assenza del Seneca morente del Louvre (a cui è accostato non il capolavoro di Rubens di Monaco ispirato a quella statua, ma una replica di bottega ritoccata dal maestro), non si poteva almeno avere in mostra uno dei busti detti dello Pseudo Seneca (come quello del Museo Archeologico di Napoli) da accostare al bellissimo disegno del Metropolitan? Si sente la mancanza anche di una copia o una riduzione in piccolo del Laocoonte.

Al rapporto con Michelangelo, altro campione del gigantismo anatomico, assai studiato da Rubens, si allude più volte nei pannelli, ma un disegno o anche una stampa di traduzione avrebbe esplicitato questo discorso, laddove non sembra fosse così necessario avere un disegno di Leonardo da Venezia per introdurre il tema del cavallo rampante in Rubens e Bernini (ai rapporti Rubens-Leonardo, che nella mostra appaiono del tutto tangenziali, è dedicato un saggio di Bambach, nel catalogo, di quasi venticinque pagine). Dato che le opere in rapporto alla figura di Seneca sono da considerarsi copie dall’Antico, a prescindere dal fatto che siano inserite nella sezione Rubens e la storia, quest’ultimo, immenso argomento, è illustrato solo da due piccoli – seppur meravigliosi – dipinti che rendono poca giustizia all’epica fragorosa per la quale Rubens era ed è celebre.

Ancora altri temi, altre sezioni. Sfruttando per quanto possibile la collezione della Galleria, sono affrontati anche i rapporti di Rubens con Caravaggio, con Tiziano e di nuovo con Bernini (la ritrattistica parlante del pittore e dello scultore). Per il primo la mostra presenta un disegno di Amsterdam da ricollegare alla Deposizione di Caravaggio (non in mostra), di cui è una copia assai libera; ma poi l’accento è sulla Deposizione Borghese di Rubens che è opera sostanzialmente tizianesca. Per il secondo, invece, protagonisti sono i putti, che sull’onda del successo dell’Offerta a Venere di Tiziano oggi al Prado (non in mostra) si diffondono in pittura e scultura nella Roma di primo Seicento. Non si capisce bene perché altri putti di primo Seicento della Borghese, ovvero il Sonno di Algardi e il gruppo della Capra Amaltea di Bernini (al quale, almeno, la didascalia ancora lo riferisce) non siano stati inseriti nel percorso della mostra, né è chiaro perché per altri pezzi sempre della Borghese con questi soggetti, che sono stati per l’occasione esposti nella Sala di Tiziano – come il gruppo riferito a Egidio della Riviera –, non ci sia una scheda di catalogo.

Nella sala precedente, forse la migliore della mostra, lo Spinario cinquecentesco della Borghese fa da detonatore alla citazione di Domenichino nella Caccia di Diana (peraltro non indicata allo spettatore) e a quella di Rubens in una delle due belle versioni di Susanna e i vecchioni. Sempre in questa sala è uno dei disegni che meglio illustrano il tocco di Pigmalione di Rubens, ovvero la sua capacità di dare vita alle sculture antiche che copiava (come peraltro aveva fatto anche Annibale Carracci poco prima: almeno un suo disegno sarebbe stato fondamentale per il discorso della mostra, poiché lui sì aveva copiato l’Antico a Roma negli stessi anni di Rubens). Ci si riferisce al foglio del British Museum, in cui lo Spinario è ripreso due volte, in un caso pedissequamente, nell’altro modificando la posizione della testa, con uno scatto di una vivacità tale da aver suggerito l’ipotesi che il pittore avesse messo un giovane vivo in quella posizione. Ma Rubens era anche capace di infondere vita all’Antico, al marmo così come all’avorio, anche quando rimaneva fedele all’invenzione copiata. La copertina del catalogo e forse l’opera chiave della mostra è l’Agrippina e Germanico dalla National Gallery di Washington (1614 circa), tratto dal Cammeo Gonzaga oggi all’Ermitage, non in mostra, ovviamente, ma neanche riprodotto nel catalogo.

Il miracoloso equilibrio con cui Rubens si mantenne fedele a quel prototipo antico, con i ritratti rigidamente di profilo, presentando altresì allo spettatore l’immagine vivissima di un uomo e di una donna, era qualcosa di unico. Il grande fiammingo scrisse persino un trattato in cui argomentava come si dovesse copiare l’Antico; ma il suo tocco di Pigmalione non poteva insegnarlo a nessuno.

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