Grisha e Marina, sua madre, vivono a Giaffa, la vecchia città di mare col tempo inglobata nell’area urbana di Tel Aviv. In Israele sono arrivati dall’ex Unione sovietica, ma lui che oggi ha quarant’anni e ha l’aspetto di un giovane uomo chiuso e un tantino depresso, di vite dice di averne vissute davvero tante. Sono quattrocento anni che si reincarna e che, di volta in volta, è stato Ghetz, 9 anni, in un villaggio ebraico della confederazione polacco-lituana all’inizio del XVII secolo; Ghedalia, 17 anni, nel ghetto di Venezia nel 1700; Gimol, una donna di 29 anni nella mellah ebraica di Fez, in Marocco, nel 1856 e Golia, parte del «Circo delle pulci», tra le baracche del lager di Dachau nel 1942.

E mentre Grisha racconta le sue tante vite, le sue tante morti, le sue continue reincarnazioni al di là del tempo, dei luoghi e dei generi, Marina, che legge di nascosto le memorie dell’uomo, spiega ai lettori che è tutto inventato, tutto senza senso e che suo figlio, di vita fa decisamente fatica a condurne normalmente anche una soltanto, la propria.

Esordio narrativo di Roy Chen (Tel Aviv, 1980), scrittore, traduttore e dal 2007 drammaturgo stabile del Teatro Gesher, uno dei più importanti teatri israeliani, Anime (Giuntina, traduzione di Shulim Vogelmann e Bianca Ambrosio, pp. 336, euro 19) è un romanzo che ne contiene altrettanti, perlomeno quanti servono a descrivere le peripezie di Grisha che attraverso le proprie reincarnazioni sembra tracciare un itinerario nella storia e nella memoria ebraiche. Ad ogni passaggio, trasformazione, nuova vita cambiano anche il tono, la forma, la lingua, consegnando al lettore, al termine del romanzo, la sensazione di aver compiuto, malgrado la costante messa in guardia di Marina dal lasciarsi troppo andare con l’immaginazione, quel viaggio tenendo per mano il suo protagonista, quale ne fosse il nome o il volto in quel momento.

Lo scrittore israeliano Roy Chen

Partiamo dall’inizio: come è nata l’idea di questo bizzarro romanzo?
Quando è nato mio figlio, che oggi ha sedici anni, l’ho guardato negli occhi e gli ho chiesto: cosa porti con te? Hai in te tutti i traumi e le felicità del popolo ebraico, o sei una tabula rasa, un foglio bianco sul quale io devo scrivere? Ho deciso di scrivere un romanzo su Grisha, un protagonista che si reincarna per quattrocento anni, un romanzo sulla vita prima della vita e sul nostro rapporto con le generazioni precedenti. Avevo paura di scrivere un romanzo storico, ma Marina, la seconda protagonista del romanzo mi ha salvato perché non crede nella reincarnazione delle anime ed è convinta che suo figlio non è capace di prendere decisioni nella vita.

Le storie del libro, le «anime» che ne sono al centro, sembrano muovere dall’idea di un cambiamento che però non smarrisce mai fino in fondo le proprie radici: perché ha scelto di evocare proprio la prospettiva della reincarnazione per narrare questo percorso?
Una delle domande che questo romanzo pone è: «Cambieresti se rinascessi oppure ripeteresti gli stessi errori?». L’errore principale di Grisha è che invece di vivere, è impegnato con la domanda su come vivere mentre Marina, sua madre, crede che di vita ce ne sia una sola e tutto il resto sia una metafora. Si dovrebbe vivere ora. Oggi è l’unico giorno importante.

Cosa rappresentano per lei i diversi personaggi e le diverse epoche descritte: sembra di trovarsi di fronte ad una sorta di strano album di famiglia, è così?
È il mio album di famiglia personale, ogni parte del romanzo rappresenta una delle mie radici. Israele è il luogo dove sono nato. Dal Marocco è venuta la mia famiglia da parte di madre. La Russia rappresenta le mie radici letterarie. Dachau è una parte della storia del mio popolo su cui non potevo soprassedere. E l’Italia, rappresentata dal Ghetto di Venezia – un luogo che è stato multiculturale e affascinante dal punto di vista intellettuale – esprime le radici che avrei voluto avere.

Si ha l’impressione che «Anime» sia anche in qualche modo una storia di fantasmi ebraici dove la tradizione, la storia e la fede si intrecciano con il soprannaturale, un po’ come accade con la leggenda del Golem. È una prospettiva che le interessava esplorare?
Credo che anche un ateo abbia il diritto di avere una vita spirituale. La mia sinagoga è il teatro. Ci vado ogni giorno a pregare sui testi che per me sono sacri: Shakespeare, Chechov, Pirandello. I miti sono importanti perché ci aiutano a sentirci meno soli in questo mondo.

Ritiene che si possa parlare di un «canone israeliano» a proposito della letteratura e se sì pensa che il suo romanzo ne faccia parte o meno?
Il mio posto nel canone israeliano lo decideranno i lettori o i critici. Per quanto mi riguarda, io mi sento vicino e al tempo stesso lontano a questo «canone». I miei genitori letterari sono Dostoevskij, Salinger e Isaac Bashevis Singer e sì, anche la Bibbia è un libro non male…

I due narratori principali del romanzo, Grisha e Marina, portano con sé la memoria e i ricordi di luoghi e figure lontane, l’uno per descriverli, l’altra per negarli o metterli in discussione. Quasi una metafora della società israeliana dove ciascuno è giunto da qualche altra parte: una società di immigrati le cui storie non sempre si armonizzano. Voleva ci fosse anche questo nel suo libro?
Grazie ai miei amici immigrati in Israele ho imparato a guardarmi di lato, a guardare diversamente il mio Paese e la mia lingua. Mi sono innamorato di cose che fino ad allora erano scontate. Israele è un Paese di immigrati e ciò è parte della sua bellezza, della sua varietà. Ma in senso più profondo siamo tutti emigrati. Siamo emigrati tutti da un Paese chiamato infanzia in un Paese chiamato adolescenza e da là in un Paese chiamato età adulta.

Un’anima che passa da un’epoca all’altra attraverso un filo conduttore costruito sull’identità: viene da pensare alla storia di Israele lungo i più di 70 anni trascorsi dalla sua fondazione. In questa prospettiva viene però anche da chiedersi in cosa il volto attuale del Paese, i politici di estrema destra che lo guidano attualmente, conservino qualcosa degli ideali laici e socialisti della sua nascita e quanto le nuove generazioni che li hanno votati assomiglino o meno a quelle cresciute nei kibbutz?
Come in tutto il mondo c’è anche in Israele una tendenza forte verso la destra, una destra che si basa sull’intolleranza verso l’altro. Mi fa molta paura. La mia famiglia da parte di padre abita in Israele da 500 anni: il mio bisnonno era un traduttore dall’arabo. Sono sicuro che se non impariamo a vivere insieme sarà la nostra fine. Abbiamo tutti, in tutto il mondo, molto lavoro da fare ancora. Investiamo molto nel culto del corpo, ginnastica, vitamine, botox, ma forse sarebbe meglio investire di più nell’anima.