Rovelli, due interpretazioni contraddittorie: entrambe corrette
Tra la natura e noi Una discussione di qualche corollario alla versione «relazionale» della meccanica quantistica, nella particolare interpretazione di Carlo Rovelli: «Helgoland», da Adelphi
Tra la natura e noi Una discussione di qualche corollario alla versione «relazionale» della meccanica quantistica, nella particolare interpretazione di Carlo Rovelli: «Helgoland», da Adelphi
Nel 1932, quando le grandi rivoluzioni della fisica contemporanea erano oramai compiute, uno dei padri della meccanica quantistica, Max Planck, annotava: «la prima e la più importante qualità di ogni modo di pensare, che voglia dirsi scientifico, deve essere la netta distinzione tra l’oggetto esterno dell’osservazione e la natura soggettiva dell’osservatore». Questa separazione drastica, tra la cosa osservata e l’osservatore, sembrava in effetti del tutto scontata, anche quando si avesse a che fare con enti fisici che sfuggono alla percezione diretta degli esseri umani.
Ma cosa è mai un oggetto fisico? È un ente-individuo, che ha un posto nel mondo perché esiste, perché è fatto in quella maniera? Oppure, è soltanto una cosa per noi, perché noi lo vediamo, possiamo toccarlo, misurarlo, spostarlo, confrontarlo con altre cose? Questo enigma sulla natura delle cose – sulla loro identità, sulle loro proprietà e relazioni – ha un’origine antica. Ancora, se ne trovano tracce nella logica contemporanea, che distingue i suoi termini in nomi, predicati e relazioni: una distinzione che ha a che fare con l’esigenza di individuare in modo univoco ciò di cui si parla.
Prime contestazioni
Fin dalle prime battute della meccanica quantistica, qualcuno cominciò a dissentire dalla tradizione classica, che distingue gli individui (in quanto tali) dalle loro proprietà e dalle loro relazioni. Di più, si andava rafforzando l’idea che la fisica non descriva affatto la realtà, ma il modo con il quale noi la percepiamo e descriviamo. Oppure, dicendolo in un altro modo, che le nostre teorie non rappresentino il mondo, ma la conoscenza che abbiamo del mondo, le nostre relazioni col mondo.
Da venticinque anni almeno – sulla scia di Bohr, di Heisenberg e di altri giganti della fisica del Novecento – Carlo Rovelli va proponendo una particolare interpretazione «relazionale» della meccanica quantistica, che – scrive – «dovrebbe essere intesa come un resoconto del modo in cui i sistemi fisici distinti si influenzano a vicenda quando interagiscono – e non del modo in cui i sistemi fisici “sono”». Anche un «osservatore», in questo quadro, è un sistema fisico che interagisce col fenomeno osservato.
Come corollario di questa interpretazione, potrebbe darsi il caso che due osservatori forniscano «due distinte descrizioni, entrambe corrette, della stessa sequenza di eventi». Di più: il resoconto offerto dalla meccanica quantistica esaurisce, secondo Rovelli, «tutto ciò che si può dire sul mondo fisico… il cui stato coincide con la rete delle relazioni che intrattiene con i sistemi circostanti. La struttura fisica del mondo si identifica con questa rete di relazioni».
Può darsi, in effetti, che le nostre teorie scientifiche più raffinate ci costringano a concludere che il resoconto di una nostra particolare esperienza, e quello di un’altra persona (che ci osservi, mentre facciamo quella particolare esperienza) possano non coincidere. Si tratta, a dire il vero, di un vecchio problema della meccanica quantistica, legato in qualche modo all’esito paradossale di un esperimento mentale proposto da Eugene Wigner nel 1961; un problema che Rovelli, nel suo ultimo saggio Helgoland (Adelphi, pp. 227, € 15,00) è portato a giudicare un male minore, rispetto agli intricatissimi «enigmi» che sorgono e rimangono in piedi, in tutte le altre interpretazioni della meccanica quantistica.
Però, è qualcosa davvero duro da digerire. Del resto, per quanto attiene alla presunta difficoltà di assumere l’esistenza e la determinatezza (indipendenti dall’osservatore) di certi enti, di certi processi o stati fisici (inaccessibili all’osservazione), ci sono branche intere della fisica contemporanea che lavorano su assunti del genere; magari, si può essere scettici su queste linee di ricerca (come accade a Rovelli, per esempio, nei confronti della «teoria delle stringhe»), ma nessuno negherà che si tratti – a volte – di straordinarie imprese intellettuali. Qualcuno ha poi sollevato il sospetto che la possibilità di arrivare a una «coesistenza pacifica» tra la meccanica quantistica e la relatività einsteiniana – le due colonne della fisica contemporanea, che confliggono per certi aspetti tra loro – dipenda in modo essenziale da condizioni di indipendenza (tra due apparati di misura lontani tra loro, o tra misurazioni effettuate a distanza), che mal si conciliano – a prima vista – con l’interpretazione relazionale.
Altri riferimenti
Nell’ultima parte del libro, Rovelli esplora tutt’altri riferimenti teorici: per esempio, il contributo di Ernst Mach, quello di Aleksandr Bogdanov (contrapposto a quello di Lenin) e quello del filosofo tibetano Nagarjuna. E arriva a sfiorare il concetto stesso di «materia», il significato del termine «significato», i problemi della coscienza e dell’Io. Temi assai impegnativi, in un libro che – almeno nelle premesse – Rovelli presenta come un’esposizione della sua teoria, un passaggio essenziale per comprendere la natura quantistica dello spazio e del tempo. Però, se già in qualche cerchia di specialisti si sentono borbottii (per questa presunta «invasione di campo» da parte di un fisico, in terreni che non sono professionalmente suoi propri), sembra utile richiamare lo spirito trasgressivo e anti-accademico di Giordano Bruno, quando si scagliava contro «quelli sordidi e mercenari ingegni vaghi d’apparire, poco curiosi d’esser che si contentano saper secondo che comunemente è stimato il sapere» (De l’Infinito, Universo e Mondi, dialogo quinto).
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