«Roubaix, une lumière», la luce delle parole e delle immagini
Al cinema Il nuovo film di Arnaud Desplechin ritorna ancora una volta nella città del regista, teatro delle sue storie. Ispirato a un fatto di cronaca, lo rilegge puntando sulla figura del protagonista, l’attore Roschdy Zem
Al cinema Il nuovo film di Arnaud Desplechin ritorna ancora una volta nella città del regista, teatro delle sue storie. Ispirato a un fatto di cronaca, lo rilegge puntando sulla figura del protagonista, l’attore Roschdy Zem
La mia scommessa è non ripetermi in nessuno dei miei film, ha detto Arnaud Desplechin parlando del suo ultimo, Roubaix, une lumiére – da oggi in sala. Che pure si muove nella città in cui il regista francese è nato, e dove negli anni è tornato più volte (Racconto di Natale, I miei giorni più belli, I fantasmi d’Ismael) nella memoria di un tempo sospeso che lo riportava alla casa di famiglia – ormai venduta – e alla tenerezza e ai conflitti di un’epoca – e di un racconto – in cui la prima persona intreccia la trama della narrazione. Qui accade uno scarto, è sempre la stessa città come dichiara il titolo ma con l’affermazione di una «terza persona» che prende spazio a partire da un episodio di cronaca, l’omicidio di un’anziana signora del quale erano state accusate le vicine di casa; gli interrogatori delle due donne erano stati filmati per poi divenire materia di un documentario televisivo, Roubaix, commissariat central, affaires courantes di Mosco Boucault – trasmesso nel 2008 su France 3 facendo molto discutere – che come lo stesso Desplechin ha dichiarato è stato di ispirazione per la scrittura del film.
LA «REALTÀ» appare così il punto di partenza, sono le strade sporche di una periferia immiserita, le liti tra vicini, un ragazzino scappato di casa, una ragazza stuprata, il quotidiano con cui si confronta il commissariato dell’ispettore Daoud, Roschdy Zem, che di questo universo «oscuro» è il centro assoluto; è lui a guidare i passaggi, a tracciare i bordi di una distanza narrativa che sposta progressivamente quella «realtà» nel polar per poi improvvisare verso altro, quasi a cercare ancora una volta le tracce dell’autobiografia (perduta) del cineasta.
Le due giovani donne accusate del delitto, Marie (Sara Forestier) e Claude (Léa Seydoux) vivono come la vittima in uno di quei quartieri poveri, chi vi abita guarda con diffidenza i poliziotti. E tace. Almeno finché può. Le ragazze si contraddicono, cambiano i fatti, una specialmente appare terrorizzata mentre l’altra, cioè Claude, è in apparenza la più forte. Ma chi era la vittima? E cosa lega le due in un rapporto che appare amoroso e al tempo stesso di dipendenza e di sottomissione di una verso l’altra?
Daoud è un tipo silenzioso, a differenza di molti colleghi preferisce farsi guidare dall’intuito, da una certa passione per l’umanità. Roubaix è notturna, dura, senza illusioni nemmeno di una lotta – se non quella disperatamente attuale di uccidere per pochi soldi, per una tv, per due piatti. Lui ne è il contrappunto, ne conosce la violenza, i segreti, ne sostiene la fatica anche nelle sconfitte, nei silenzi delle perdite. È questione di sguardo, dice.
DAOUD/DESPLECHIN dunque? E non perché è la sua prospettiva che il regista sceglie per comporre il racconto, non solo almeno. C’è nel modo di indagare del personaggio – a sua volta riflesso in altri frammenti sfuggenti e personali di dolori, rotture familiari, appartenenza, identità – qualcosa che rimanda al gesto della messinscena, alla composizione di parola e immagine, alla «narrazione» appunto, intimamente legate nell’opera di Desplechin, anzi ogni volta quasi una «sfida» nella sua ricerca intorno al linguaggio, all’errore, alla suggestione di una possibilità che diviene evidenza nel momento in cui assume una forma visibile.
E SE IL REGISTA si chiede in che modo filmare gli interrogatori sottraendoli alla codificazione del genere, il personaggio prova a far uscire le parole dal silenzio per ricreare con esattezza il gesto. Ma non è questo che significa «fare un film», il tentativo di illuminare le zone oscure, quanto del vissuto rimane in ombra? Dal commissariato Roubaix si apre al mondo, apparso all’inizio nei dettagli di quella città del nord della Francia con alto tasso di crimini, mentre la traiettoria investigativa – fino alla verità sul delitto – riesce di quella realtà disseminata in particolari a catturarne il sentimento, i conflitti, le discrepanze proprio perché il suo tragitto non è diretto. C’è il nostro tempo qui, e c’è la società presente, francese o europea, eppure non vuole essere un film «sociale» Roubaix, une lumière, la sua materia al contrario oscilla lungo diversi confini, si fa tragedia classica e allenamento alla comprensione. Arte di guardare il mondo, invenzione di cinema.
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