Cultura

Rotte di resistenza in movimento

Rotte di resistenza in movimentoZineb Sedira, «The Lovers» (2008)

TEMPI PRESENTI Un percorso di letture sul dibattito interno alla sinistra statunitense. Bisogna uscire dalla prospettiva per cui la violenza dei confini e la solidarietà sarebbero questioni «settoriali», sono invece chiave di lettura della «questione sociale»

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 6 giugno 2019

Attorno ai confini si continua a morire, in molte parti del mondo. Al tempo stesso, nella congiuntura politica che stiamo vivendo, i confini appaiono fortemente politicizzati per via dell’iniziativa di vecchie e nuove destre. A fronte di persistenti processi di globalizzazione, che disegnano spazi (spazi del capitale, in primo luogo) non riducibili all’ordine geometrico dei tradizionali atlanti internazionali, il controllo sui confini viene rivendicato con retoriche roboanti e virili: ogni loro «porosità» viene indicata come una ferita al corpo sovrano della nazione, da suturare con filo spinato e muri. La resistenza a queste retoriche e a questi processi è generosa, diffusa e articolata, ma non è stata in grado finora di forgiare un discorso politicamente innovativo ed efficace, continuando a muoversi tra argomentazioni umanitarie e invocazione dei diritti umani.
È venuto il momento di cominciare a lavorare collettivamente alla definizione di un progetto capace di assumere la questione dei confini (e della libertà di movimento) nella sua centralità. Si tratta in particolare di uscire dalla prospettiva per cui la violenza dei confini e la solidarietà con i e le migranti sarebbero questioni «settoriali» (e dunque in fondo marginali), per assumerle al contrario come chiave di lettura della «questione sociale» e di articolazione di un progetto ambizioso e radicale di trasformazione della società nel suo complesso.
Refugees welcome, in questo senso, è uno slogan che occorre certo continuare a utilizzare, ma non è di per sé sufficiente: va riempito di contenuti, e va soprattutto collocato all’interno di un discorso capace di dimostrare che una società fondata su confini aperti e libertà di movimento è più libera, più ricca e più felice di una società fondata sulla paura e abbarbicata attorno a confini fortificati. Che confini aperti e libertà di movimento creano condizioni in cui è più facile lottare efficacemente contro la povertà e lo sfruttamento, conquistare diritti e redistribuire la ricchezza.

ATTORNO A QUESTI TEMI è in corso un dibattito molto intenso all’interno della sinistra statunitense, che può fornire più di uno spunto anche a noi. Il lavoro culturale ha meritoriamente tradotto in italiano gli interventi a una tavola rotonda organizzata su «sinistra e confini aperti» dal blog State of Nature, che offrono una buona panoramica della discussione. Un paper di Suzy Lee, The Case for Open Borders, da poco pubblicato nella rivista Catalyst (e liberamente scaricabile), è un altro contributo importante, mentre sono molti i libri usciti sull’argomento negli ultimi anni. Ne cito qui soltanto due: quello di Harald Bauder, Migration Borders Freedom (Routledge, 2018) e il volume collettaneo a cura di Reece Jones, Open Borders. In Defense of Freedom of Movement (University of Georgia Press).
Quel che mi pare importante segnalare nello sviluppo di questo dibattito è lo spostamento dell’asse analitico e teorico da posizioni di carattere unilateralmente normativo, che sono state a lungo prevalenti negli approcci di filosofia politica e del diritto (ad esempio nei lavori di Joseph Carens), a posizioni diversamente articolate, capaci di investire l’insieme delle questioni che si sono precedentemente richiamate. A venire in primo piano, ad esempio nel contributo molto bello di Charles Heller, Lorenzo Pezzani e Maurice Stierl al volume curato da Reece Jones, è la pratica materiale della libertà di movimento da parte dei migranti, che agisce nel campo di tensione dei rapporti tra confini, Stato e capitale determinando molteplici attriti e conflitti che investono gli stessi ordinamenti normativi. La frontera está cerrada pero vamos a pasar («il confine è chiuso ma noi lo attraverseremo»), una frase di una canzone che circola tra le «carovane» dei migranti centroamericani in Messico, bene illustra la formidabile determinazione, l’ostinazione che sostiene questa pratica: una politica dei confini aperti e della libertà di movimento non può che assumerla come propria base essenziale.

MA SU QUESTA BASE si tratta di innestare un insieme di altre considerazioni. Non si può evitare di ricordare, in particolare, che esistono posizioni che affermano la necessità di aprire i confini dal punto di vista liberale o neoliberale della «libertà di mercato». Il fatto (ricordato da Harald Bauder) che tali posizioni siano state ad esempio sostenute in un intervento del 1980 da Ronald Reagan e George W. Bush invita a prendere sul serio la questione: una questione che nel dibattito all’interno della sinistra (ad esempio nell’intervento di Angela Nagle, The Left Case Against Open Borders, che si può leggere nel sito di American Affairs) viene di tanto in tanto affrontata (e travisata) attraverso la figura marxiana dell’«esercito industriale di riserva». Non c’è qui lo spazio per mostrare il fraintendimento e il vero proprio stravolgimento a cui viene sottoposta questa figura, che si fondava in ogni caso sull’analisi delle dinamiche di un mercato del lavoro totalmente diverso da quello contemporaneo, caratterizzato da processi di frammentazione che mettono strutturalmente in discussione il confine tra lavoro e non lavoro.

RESTA COMUNQUE il fatto che esiste evidentemente un interesse capitalistico allo sfruttamento di un lavoro migrante per quanto possibile privato di diritti e capacità di organizzazione e di lotta. Una politica dei confini aperti e della libertà di movimento va dunque qualificata, deve essere accompagnata da un insieme di lotte capaci di spostare l’asse della dinamica migratoria, per riprendere il punto centrale del paper di Suzy Lee, da una focalizzazione sui flussi a una focalizzazione sui diritti: su diritti del tutto materiali, da conquistare ed espandere attraverso un doppio movimento, sospinto da un lato da un movimento del lavoro che crei le condizioni di una mobilitazione generale e torni a esercitare potere nella società, dall’altro dalle lotte delle e dei migranti, da cui può venire (già viene) un contributo essenziale alla costruzione di un movimento del lavoro all’altezza delle sfide del presente.
Si vede bene in questo senso come sia possibile e necessario costruire una politica dei confini aperti e della libertà di movimento che guardi all’insieme della società, per tracciarvi linee di divisione e antagonismo radicalmente diverse da quelle che oppongono gli «autoctoni» agli «stranieri». Si tratta evidentemente di sviluppare questa traccia, di censire le pratiche e le lotte che già oggi la esemplificano e di por mano a un lavoro di lunga lena per costruire un immaginario politico che sostenga il progetto a cui allude. Un luogo fondamentale di sperimentazione, da questo punto di vista, sono indubbiamente le città. Le «città solidali» e le «città santuario» già mettono infatti in pratica elementi embrionali di una politica dei confini aperti e della libertà di movimento.

Peter Mancina, nel suo contributo al libro curato da Reece Jones, mette bene in evidenza limiti e potenzialità delle «città santuario» statunitensi, dove sulla base della specificità del sistema federale le autorità locali non cooperano con quelle federali per l’attuazione di misure contro l’immigrazione «illegale», comprese in particolare le espulsioni (e va ricordato che tra le «città santuario» figurano metropoli come San Francisco e New York). Nate sulla base di eterogenee pressioni, tra cui la banale esigenza amministrativa di preservare l’impegno esclusivo delle autorità municipali per le attività di loro competenza, le «città santuario» aprono comunque spazi di libertà e di movimento, in cui quello che Mancina definisce sanctuary power può essere appropriato ed esercitato da una pluralità di soggetti. Tra questi soggetti figurano ad esempio i Worker centers, spazi di iniziativa e organizzazione autonoma che stanno trasformando in profondità il sindacalismo metropolitano negli Stati Uniti (se ne può vedere un’analisi efficace nel libro di Paul Apostolidis, The Fight for Time. Migrant Day Laborers and the Politics of Precarity, Oxford University Press, 2019).

LA CRITICA DI MASSA dei confini esercitata dai migranti, a un prezzo insostenibile che non si può dimenticare, si prolunga dunque all’interno delle città, ampliando e riqualificando la base materiale su cui una politica dei confini aperti e della libertà di movimento può essere costruita. Le diverse forme di attivismo attorno ai confini, che si muovono tra umanitarismo, difesa dei diritti umani e militanza No Border, hanno un ruolo essenziale (e come mostra Harald Bauder sarebbe sbagliato contrapporre le diverse prospettive che le animano). Ricordano ogni giorno l’intensità e il carattere spesso letale delle battaglie che si combattono attorno ai confini.
Si tratta ora di fare un passo ulteriore, di svolgere politicamente le implicazioni della tesi secondo cui – come scriveva ormai molti anni fa Étienne Balibar – i confini non sono più soltanto «margini» di un territorio o di una società ma sono stati trasportati al centro dello spazio pubblico e della nostra stessa esperienza quotidiana. Un progetto e una politica di coalizione capace di sostenerlo: di questo abbiamo oggi bisogno.

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