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Rothenstein, le rovine d’improvviso

Rothenstein, le rovine d’improvvisoWilliam Rothenstein, "Blasted Trees", 1918, Bradford Museums and Galleries

Le immagini della guerra: William Rothenstein Nella Francia del Nord, dopo la battaglia, il disegno solerte del pittore inglese staglia contro il cielo atono – isolati, disseccati, mutili – gli alberi e gli edifici. Vourlon, Bourlon..., dipinti nel 1917-’18, somigliano al regno omerico dei morti. Ne ha lasciato anche vivide descrizioni nell’autobiografia «Men and Memories»

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 21 agosto 2022

La prima volta che William Rothenstein si recò sul fronte era il 1915. Lo scortava Émile Vandervelde, ministro del Belgio, allora molto popolare presso l’esercito per aver negato alle armate tedesche il permesso di attraversare il paese; e, con questo speciale salvacondotto d’esser in compagnia d’uno dei primi uomini della nazione, si recò prima a La Panne, vicino poi a Dunkerque, e di lì a Bailleul, passando per Cassel, avamposto delle linee inglesi.
Già lo scenario andava mutando. Quando giunse a Ypres annotò: «perdurava anche lì quel tetro silenzio: non un’anima per le strade, e le case, ad osservarle dall’automobile, si rivelavano per quel che erano, nient’altro che vuote conchiglie. Era come camminare in una città di morti. Ad un certo punto svoltammo nella piazza, ed ecco subito apparirci di fronte il grande mercato con accanto la Cattedrale, livida, sfigurata, con le pallide cicatrici contro il cielo basso, impressionante, indimenticabile visione. Ti veniva incontro come un colpo inaspettato, col suo carico d’orrore e d’angoscia, quasi che anche i grandi edifici sentissero l’agonia della morte imminente. Era come assistere agli spasmi di un leone ferito».
Nell’autobiografia dalla quale queste parole sono tratte, Men and Memories (il cui secondo volume venne pubblicato nel 1932), il passo è accompagnato dalla riproduzione d’un dipinto: The Cloth Hall at Ypres. Il quadro non fu realizzato sul momento, bensì dopo la guerra, perché allora il pittore fu obbligato a proseguire, senza potersi fermare. Guardiamone la scena. Dalla descrizione del 1915 poco sembra essere cambiato. Le parole dell’artista, anzi, vi calzano con la precisione di un’ekphrasis antica: vi ritroviamo il medesimo cupo livore del cielo e lo stesso ammasso d’edifizi in rovina, fra i quali i resti d’un campanile, che, così sventrato col grande arco che s’apre sul nulla come un’enorme bocca, ricorda uno di quei sannuti mostri posti a ornamento dei capricciosi giardini di Bomarzo, solo che questo ha un unico dente e sembra orbo di un occhio. Soprattutto, vi si legge quel senso di spettrale mattanza che è nella pagina del libro, come di pietra fattasi carne («white wounds»), o meglio ossame, ché la Ypres raffigurata dal pittore ha qualche parentela con la valle in cui Dio depose Ezechiele.
Rothenstein tornò in Inghilterra, profondamente suggestionato da quanto aveva visto, e si convinse della necessità che gli artisti inglesi immortalassero le scene di guerra. Scrisse agli amici: ne aveva parecchi, soprattutto fra le personalità di Oxford alle quali aveva dedicato una famosa serie di ritratti litografici nel 1896. Parlò, inviò telegrammi e tanto fece fino a quando l’idea non venne portata all’attenzione delle sfere più alte del governo da Lady Cunard, donna oggi pressoché ignota ma al tempo molto influente. Rothenstein, tuttavia, non lasciò subito l’Inghilterra. Si trattenne ancora a Londra per qualche anno e raggiunse il fronte solamente nel 1917, quando il conflitto era al suo culmine.
Partì nel novembre, non per il Belgio questa volta, bensì per la Francia. Nel nord della regione il paesaggio di guerra non era molto diverso da quello belga, salvo che la monotonia dell’inverno accentuava l’impressione di solennità e sembrava conferire un che di fossile o salino a tutte le cose. Sulla strada per Bourlon dipinse piane rade e cieli foschi, la cui nudità accentuava la desolante magnificenza degli edifici in rovina e degli alberi combusti. Rothenstein non è un espressionista, il suo disegno è minuto e attento, mai deformante. Sono le cose a parlare: isolate, l’una staccata dall’altra, disseccate delle midolla del colore e stagliate contro un cielo atono. Avenue at Vourlon, Avenue of the Château, Avenue at Bourlon non sono inferni assordanti, come quelli di Dante o della Guernica di Picasso, ma somigliano piuttosto al regno omerico dei morti, silente paese delle ombre, nel quale s’inoltrano tremebondi i compagni di Ulisse.
Gli altri pittori al fronte dipingevano le truppe in avanzata, i soldati in riposo, l’andirivieni dei comandanti, ma Rothenstein in questo genere si limitò a qualche schizzo dei combattenti delle divisioni indiane. Erano le macerie delle città ad attirarlo, le campagne ferite: «Il nord della Francia era adesso una regione di rovine che mi appariva altrettanto bella, altrettanto sacra, quanto i famosi siti delle abbazie. Non era forse questo angolo di mondo, nel quale tanti uomini avevano sofferto allo stremo, e tante anime erano state così repentinamente rese al cielo, un luogo di fatto consacrato? Serbarne la memoria prendeva l’aspetto di un pio dovere».
Le sofferenze avevano santificato i luoghi, facendo di quelle macie malinconici mausolei. Ma i monumenti tombali sono in pietra, e così anche la natura di questi dipinti appare marmorea. In una collezione privata, c’è una magnifica puntasecca d’un paesaggio sconvolto dai bombardamenti dove gli alberi riarsi paiono sostenere i resti delle case, mentre ai loro piedi i rami inceneriti non si distinguono dalle travi carbonizzate. Altrove, come in Bombed ruins, Clery o come in Ypres, sailent, Rohenstein seppe dipingere anche scene più miti; allora, sotto un cielo raddolcito, sembrava che la natura cominciasse a rinverdire, indifferente, come quella di Lucrezio, agli errori degli uomini, le nuvole scorrevano per il cielo, coi loro tenui, lanuginosi giochi, e sulle mura spoglie e sopra i pilastri abbattuti nasceva un po’ d’erba. Ora, questa rifioritura faceva sembrare le rovine degli edifici antichissime: «Quel che stupiva in questi avanzi di villaggi e di castelli – annota ancora Rothenstein – era ch’essi apparivano come risalenti a età immemoriali, quasi che, al pari delle abbazie della mia fanciullezza, non fossero mai state altro che rovine. Le travi, indebolite e consumate, mentre stagliavano le loro malinconiche forme all’orizzonte, avevano già preso il grigio argenteo dell’età, i colori della tappezzeria alle pareti s’erano fatti delicati, simili a fiori sfiniti».
Virginia Woolf scrisse una volta che una delle più grandi scosse della Prima guerra mondiale fu costituita dalla consapevolezza che la pietra, fatta per resistere al tempo, avesse la fragilità d’una umile zolla di terra. Rothenstein nei suoi dipinti sembra attratto da questo aspetto. La storia poteva subire un’accelerazione repentina, e quel che in genere impiega molti secoli a decadere, come il fantastico regno di Ozymandias dei versi di Shelley, sprofondare in un attimo. Così accadeva anche di quegli uomini che, di ritorno dal conflitto, traumatizzati, non sapevano raccontarlo, tanto la loro memoria era stata risucchiata in un lampo, come le imperiture città di pietra colpite delle bombe. Case, edifizi, memorie… non era forse questo il connubio tipico dell’Ottocento borghese che scrittori come Pater o come i Goncourt aveva espresso nell’aspirazione a erigere dimore che fossero estensioni dell’anima? Ora gli spiriti erano mutili e gli appartamenti squassati.
Rothenstein non cessò di dipingere dopo l’armistizio. Su richiesta del governo canadese si recò sul terreno occupato dalle truppe vincitrici. Abbiamo un dipinto dell’epoca che ritrae con la consueta perizia un cannone e un militare di guardia: Vista sul Reno. Esiste anche una foto che immortala il pittore mentre ritrae la scena. Ha un pesante soprabito, perché faceva molto freddo. Era infatti inverno e nevicava sulle case e sulle cime lontane. Nel pieno del conflitto, il poeta John Drinkwater aveva scritto una breve lirica che Rothenstein riportò nella sua autobiografia; cominciava: «Morning and night I bring/ Clear water from the spring/ And through the lyric noon/ I hear the larks in tune», ma Max Beerbohm, con la sua tipica ironia, gli fece il verso: «Morning and night I found/ White snow upon the ground/ And on the tragic well/ grey ice had cast her spell». Beerbohm aveva ragione: sull’Europa delle belle case, di Veermer, di de Hooch, di Metsu era sceso l’inverno.

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