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Rotella, lo scarto del mondo come «techne»

Rotella, lo scarto del mondo come «techne»Mimmo Rotella, un’opera del 1957, «TAL», © 2017 Mimmo Rotella by SIAE

Curato da Germano Celant, edito da Skira, il catalogo ragionato delle opere di Mimmo Rotella 1944-1961 (seguirà il volume 1962-2006) Un lavoro che mostra come si tratti di un artista profondamente radicato negli anni cinquanta (Burri, Prampolini), alla luce dei quali va spiegato l’intero percorso

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 23 luglio 2017

Gli anni cinquanta sono stati giustamente definiti dal gallerista Plinio De Martiis «gli anni originali». Fabio Mauri, che era allora un giovane artista ai suoi esordi, ha scritto a proposito di quegli anni: «i quadri di quel tempo sono miserabili di fattura. La materia delle loro componenti è infima. Il legno, non stagionato s’imbarca; la tela, economica, gonfia; i colori qualsiasi. I metalli casalinghi, ecc… Le idee, invece, molte e incisive. E molti e incisivi gli artisti bravi».

Tra i protagonisti di quell’intensa stagione dell’arte italiana, tra coloro che sono stati «in grado di usare lo scarto del mondo come techne» Mauri annovera Mimmo Rotella, che «attorno agli anni ’54 o ’55, strappa i manifesti dalle mura. Li incolla e, più tardi, incitato a farlo dallo sciamano, guru più che critico, Emilio Villa, miserabile capo zingaro dell’avanguardia romana di quegli anni, espone». È infatti su invito di Villa che Rotella presenta in pubblico per la prima volta alle Zattere del Ciriola, un barcone ancorato alla riva del Tevere, i suoi décollages, opere realizzate con brandelli di manifesti e affiches staccati dai muri della città.

«La giudiziosa povertà dei suoi ‘strappi’ rende il suo lavoro inincorniciabile», scrive ancora Mauri, sottolineando come l’apparente semplicità del gesto compiuto da Rotella arrivi a comprendere in sé pratiche e significati che oltrepassano i limiti della pittura tradizionale, soprattutto di quella pittura «informale» a cui la sua ricerca può essere in parte accostata.

Per cercare di cogliere appieno l’importanza della ricerca di Rotella e la precocità di alcune istanze poste dalle sue opere è utile ripercorrere il suo lavoro attraverso le pagine del primo volume del catalogo ragionato pubblicato di recente a cura di Germano Celant: Mimmo Rotella Catalogo ragionato. Volume primo 1944-1961, Skira, pp. 742, euro 280,00).

Il volume è suddiviso in due tomi: il primo comprende un ampio saggio del curatore sull’intera attività di Rotella dagli esordi fino alla scomparsa nel 2006 (in edizione bilingue italiano e inglese, il testo è una versione ampliata del contributo che Celant aveva già dedicato all’artista nel 2007); il secondo tomo raccoglie le immagini e le schede delle opere realizzate tra il 1944 e il 1961, intervallate da sezioni documentarie illustrate che ne ripercorrono cronologicamente la vicenda biografica tra il 1918, anno della nascita, e il 1961, curate dallo stesso Celant, con Antonella Soldaini e Veronica Locatelli. Alle opere datate tra il 1962 e il 2006 saranno dedicati i successivi volumi.

Giunto a Roma nel 1945

Dopo gli esordi figurativi, giunto a Roma nel 1945 Rotella si orienta presto verso l’astrazione geometrica. Espone con regolarità alle mostre organizzate dall’Art Club di Enrico Prampolini e frequenta l’ambiente dei giovani artisti animato da Achille Perilli, Piero Dorazio e Mino Guerrini.

Mentre dipinge opere molto vicine a quelle dei suoi amici (si confrontino, ad esempio, Giochi pesanti o Esotico, entrambe del 1951, con E dietro infiniti spazi di Perilli o Grande sintesi di Dorazio dello stesso anno), inizia a scrivere e a recitare in pubblico le sue prime poesie «epistaltiche»: poemi fonetici composti da parole inventate intrecciate a cantilene antiche, a citazioni sonore, a rumori o a improvvisazioni jazz, in una commistione di linguaggi che, come ha scritto l’artista stesso, «corrisponde a ciò che sul piano della scultura è l’arte polimaterica e su quello della pittura il collage».

È questa parte della sua ricerca, interessata ai transiti tra linguaggi diversi e agli sconfinamenti performativi, che lo porterà al rientro dagli Stati Uniti, dove soggiorna un anno tra il 1951 e il 1952, a mettere in crisi l’idea di quadro e di composizione pittorica. Nessuna opera datata 1952 è registrata nel catalogo generale, né l’artista prende parte ad alcuna mostra tra il 1952 e il 1955. Quello che avviene allora nel suo studio, scrive Celant, «è all’insegna del silenzio e della crisi (…), vale a dire la sopravvivenza in un limbo in cui il rigetto di un linguaggio è alla ricerca di una risposta».

Questa risposta affonda le radici nel passato recente della storia dell’arte e al contempo aderisce in pieno alla realtà che lo circonda. Il décollage infatti si ricollega, non solo testualmente, alla pratica del collage delle avanguardie storiche d’inizio secolo (il termine era stato preso in prestito da Villa dal Dictionnaire abrégé du surrealisme del 1938). Entrambi i procedimenti, pur di segno opposto, permettono di selezionare porzioni di realtà e fissarli dentro lo spazio e il tempo immutevole dell’opera d’arte, rendendo al contempo quest’ultima partecipe dello scorrere dell’esistenza.

A orientare Rotella in questa direzione è stata certamente la conoscenza in quegli anni dell’arte polimaterica di Enrico Prampolini e ancor più dell’opera di Alberto Burri. Se Prampolini era allora a Roma un punto di riferimento per qualsiasi giovane artista interessato all’arte d’avanguardia, di Burri Rotella poté certamente vedere, più che la mostra Neri e Muffe tenutasi alla Galleria L’Obelisco mentre lui era in America, la personale ospitata alla Fondazione Origine nell’aprile 1953. Tra le altre opere esposte in quell’occasione vi erano diversi Sacchi, «dolcissime o astruse o preziose reminiscenze delle materie quotidiane», come le definisce Villa nella sua presentazione.

Anche residui di intonaco e calce

Quando decide di lasciare il pennello e prendere il taglierino e il raschietto per strappare brandelli di manifesti dai muri delle strade e ricomporli poi su un supporto di tela, carta, cartoncino o faesite, inglobando spesso residui di intonaco e calce dal muro, Rotella partecipa, scrive Celant, di quella stessa «tendenza al fluire occasionale della materia che scorre dinanzi allo sguardo e tende ad accumulare eventi e trame». Inoltre, l’azione compiuta dall’artista, sia essa strappo, taglio o buco, analogamente a quanto avviene allora nell’opera di Lucio Fontana, sposta l’attenzione dalla superficie del quadro allo spazio fuori di esso, quello in cui l’artista agisce e vive, fino a cristallizzare il tempo del fare in un’immagine.

Rotella già a metà del decennio allunga però il passo rispetto agli artisti suoi coetanei. Cerca, infatti, «di ridurre al minimo – scrive Celant – la sua partecipazione emotiva ed espressiva», intervenendo sempre meno sui materiali che preleva. Questa maggiore impersonalità del gesto lo porta a lasciare più spazio ai dettagli figurativi.

Le opere con scritte, loghi e figure sempre più riconoscibili alludono allora in maniera esplicita alla realtà del contesto urbano, del cinema (I due evasi, 1960), del fumetto (Grande comp, 1961) e della pubblicità (Pepsi-Cola, 1960; Il punto e mezzo, 1962). Alla fine del decennio la sua ricerca «trapassa da specchio di sé a specchio della società di massa» e lo avvicina al new dada statunitense e alle coeve ricerche della pop inglese e americana.

Nel 1961 viene invitato a esporre alla mostra Art of assemblage al MoMA di New York e nel 1962 all’esposizione New realists alla Sidney Janis Gallery insieme agli artisti pop e ai Nouveaux réalistes francesi, riuniti da Pierre Restany. È la sua vicinanza a Restany e a Parigi (rapporto che Celant analizza nel dettaglio, anche per redimere qualche questione di primogenitura sull’uso del décollage) che isolerà Rotella dai successivi sviluppi della Pop Art, lasciandolo come «radicato nel ’50», ha scritto sempre Mauri: «Rotella invecchia, senza mai essere stato adulto, nell’integerrima finzione di aver conosciuto solo giovinezza, sua e di altri».

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