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Rosso Malpelo cromatico con e oltre il neorealismo

Rosso Malpelo cromatico con e oltre il neorealismoUn fotogramma di "Rosso Malpelo" di Pasquale Scimeca, 2007

"Rosso Malpelo. Dalla novella di Giovanni Verga al film di Pasquale Scimeca", a cura di Sebastiano Gesù, Salarchi Immagini/Arbash/Banca Agricola Popolare di Ragusa Nel centenario verghiano, uno splendido albo di grande formato dedicato al film che Pasquale Scimeca trasse, nel 2007, dalla novella delle cave: cinema nudo e ponderale, atto d’amore, ma a distanza, verso il primo Visconti

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 11 dicembre 2022

Giovanni Verga è il battistrada del neorealismo ed è l’emblema del frangente dove si consuma, ex silentio, l’eversione di un’arte evasiva e in sostanza dimissionaria, il cinema dei telefoni bianchi. Alla morte del maestro siciliano, il 27 gennaio del 1922, per decenni rimosso in un alveo provinciale e anacronistico, residuano la prima monografia organica su di lui, del ’19, a firma di un reduce dalle trincee che ne rivendica l’aspra verità, Luigi Russo, e l’omaggio per gli ottant’anni che gli ha rivolto al Teatro Bellini di Catania un allievo necessariamente degenere, Luigi Pirandello, il quale ne fa il campione della letteratura «di cose» finalmente avversa alla «letteratura di parole».
Fatto sta che a Verga già alla fine degli anni trenta guardano i giovani frondisti della rivista «Cinema» e del neonato Centro Sperimentale, da Mario Alicata e Giuseppe De Santis a Carlo Lizzani e Pietro Ingrao, i quali riconosceranno in Ossessione (1943) di Luchino Visconti l’atto fondativo del neorealismo medesimo, condotto a compimento cinque anni dopo con La terra trema (Episodio del mare), una potente pure se frammentaria deduzione da I malavoglia. E a Verga fatalmente ritornano quanti pensano che il cinema debba trasmettere il senso dello stare al mondo tra le cose e gli esseri umani, persuasi della sostanza tridimensionale, ponderale, nudamente fisica, del mondo stesso.
Fra costoro c’è un maestro della recente cinematografia italiana, Pasquale Scimeca, che a Verga ha intitolato la trilogia composta da Placido Rizzotto (2000), Rosso Malpelo (2007) e Malavoglia (2010), il cui pannello centrale ritorna in un catalogo che, per ricchezza dei contributi e splendore tipografico, si segnala fra i migliori apporti del centenario, Rosso Malpelo Dalla novella di Giovanni Verga al film di Pasquale Scimeca (a cura di Sebastiano Gesù, Salarchi Immagini/Arbash/Banca Agricola Popolare di Ragusa, «La magnifica visione», pp. 207, € 27.00), un albo di grande formato che contiene la nota di regia e la sceneggiatura del film a firma di Scimeca e Nennella Buonaiuto, la redazione ne varietur della novella verghiana (1880: la princeps, archetipo del verismo, era uscita due anni avanti sul «Fanfulla»), uno scritto di Anton Giulio Mancino e un nutrito dossier storico-letterario-cinematografico, a cura di Antonella Giardina, la cui finalità è espressamente didattica.
Scimeca si richiama a Visconti ma nella consapevolezza di una distanza critica e dichiara: «Il mio cinema non è neorealista. Il neorealismo per me è un modello, un’idea di cinema inteso come arte rivoluzionaria, poi però il mio cinema è altro. È metafora del mondo, è sguardo diverso, è cinema della storia, è amore verso i vinti». Un amore, va aggiunto, che mette la sordina alle armoniche sentimentali per proiettarle e dunque ritrovarle mutate in uno spazio anche utopico, in estri di vitalità non ancora repressa. Quanto a Scimeca, al nome di Verga (e al magistero numinoso di Visconti) andrebbe associato quello di Elio Vittorini, specie l’autore di Conversazione in Sicilia e del postumo Le città del mondo da cui nel ’75 trasse il bellissimo film televisivo un lirico di netta ascendenza neorealista, Nelo Risi. Qui Scimeca è fedele alla traccia veghiana nel plot ma con varianti significative, quali l’introduzione della bambina amica di Malpelo, dolcemente sororale soccorrevole, ovvero l’incombenza di madre e sorella che nel testo letterario sono invece richiamate in assenza, i teneri svitati compagni di osteria (qui è memorabile il cameo di Franco Scaldati) o infine l’inserto del dramma familiare di Ranocchio che esorbita dalla novella. Relativamente indeterminata è la collocazione temporale del film, quasi una eterna Sicilia del disdoro e della fatica più umiliante e nera, mentre il paesaggio è individuatissimo, scabro e riarso, inospitale, tra la sciarra scura dei campi lavici e i borghi appollaiati, autentici castelli rupestri, laddove l’entroterra catanese della novella è traslato dal regista nell’arido bacino zolfifero di Sperlinga, parte del consorzio comunale di Enna. Rispetto al suo modello letterario, Malpelo è un adolescente chiuso, saturnino e malinconico, più testardo che malevolo, mai il ragazzo orgoglioso e insolente, dagli occhiacci cattivi, che abbiamo conosciuto a scuola.
Nel suo contributo, Mancino rinvia giustamente a Verga come allo «strumento letterario di cui il regista torna, dopo Visconti e nel nome di Visconti, a impossessarsi». Tant’è, e il catalogo lo documenta a oltranza tra fermo-immagine e vere e proprie foto di scena, la prima mano del regista è visibile in almeno due opzioni del tutto originali. L’una concerne la fotografia davvero straordinaria di Duccio Cimatti, uno spettro cromatico che esaurisce la gamma degli intermedi, dal blu cobalto di certi notturni ai verdi e gialli bruciati nelle scene all’aperto, al colore sulfureo (un ocra strinato, letteralmente incendiato) che esala al chiuso della cava dove la macchina da presa non deroga mai dall’altezza d’uomo e, anzi, può scivolare al rasoterra in cui la sostanza umana, animale e minerale sono ormai una cosa sola. (Cioè il grumo sofferente e muto che per Verga scrittore è la cosa-in-sé, come scrive in uno studio tuttora insuperato Romano Luperini, Verga e le strutture narrative del realismo. Saggio su Rosso Malpelo, 1976, poi Utet 2009: «La filosofia di Verga è la stessa di Malpelo: muove da un materialismo a-dialettico, che riduce integralmente la vita umana e sociale a quella animale e naturale»).
L’altra opzione di Scimeca, e non meno importante, è d’ordine linguistico e stavolta di segno apertamente innovativo: se infatti, garantendosi una larga leggibilità, Verga aveva utilizzato il discorso indiretto libero (Erlebte Rede, «discorso rivissuto», stando alla lettura di Spitzer), viceversa Scimeca torna a un dialetto tenuemente ibridato di italiano, a un sottofondo acustico che accompagna la forza delle immagini senza mai interporsi ma, al contrario, connettendosi alla partitura musicale di Miriam Meghnagi, un sonoro tardomediterraneo che asseconda soluzioni di montaggio esatte, brusche, prive di compiacenza.
Il regista introduce una variante essenziale anche nell’explicit che invece sembra a prima vista duplicare la novella, quando Malpelo si avvia a morte certa scegliendo di perlustrare lui il labirinto della miniera, impavido e solo come un eroe di Omero: nel film, mentre sta avviandosi, Zio Mommu detto lo Sciancato lo chiama per la prima volta («Pinuzzu…», questo il suo nome) e intanto aggredisce, colpendolo, l’ingegnere responsabile della cava che ha appena deciso di immolare il ragazzo.
Il sorriso accennato, ineffabile, con cui Malpelo entra nel buio è un riflesso del tutto imprevisto, forse un ultimo bagliore di utopia.

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