Se ne è andata nell’ora (nelle ore, nei giorni così confusi e incerti per l’Italia e per il mondo intero) «tra cane e lupo» Rosetta Loy, tra le voci più alte e limpide della letteratura, in un tempo di gravi domande e inesplorate per i destini generali dell’umanità. Lei che, all’umanità varia e attenta dei suoi lettori e delle sue lettrici, ha consegnato un lascito inestimabile: la consapevolezza dell’essere nella Storia, l’ininterrotta analisi di una coscienza privata e collettiva.

Rileggendo l’opera di Loy si ha l’impressione che il nodo caldo di questa nostra storia recente si stringa in una manciata di anni, destinati a premere per decenni interi sulla vita di questo sciagurato paese. Si tratta degli anni Quaranta, così lucidamente raccontati da Loy in romanzi quali La parola ebreo (storia di una bambina di famiglia cattolico-borghese che sente, scottante e irricevibile, l’orrore delle leggi razziali) e Ahi Paloma! (racconto dell’ultima estate dell’innocenza, agosto ’43, di un gruppo di ragazzi sfollati dalle città bombardate). Ancora a quegli anni torna Loy con il romanzo Nero è l’albero dei ricordi, azzurra l’aria, al cui centro stanno i fatti drammatici della strage di Sant’Anna di Stazzema.

SCRITTRICE DELLA MEMORIA, dunque, ma anche dalla memoria. La biografia di Loy è, infatti, intrecciata a quelle dei più grandi artisti, scrittori e intellettuali del Novecento: il critico Cesare Garboli, al quale è dedicato il recente ritratto letterario Cesare; o Natalia Ginzburg, sodalizio destinato a durare fino alla morte della scrittrice torinese che scoprì Rosetta Loy col romanzo La bicicletta nel ’74, pubblicandola da Einaudi. Non fu facile, complice anche l’aria di chiusura e diffidenza che ancora, negli anni Settanta, nonostante le onde di una rivoluzione culturale già visibile all’orizzonte, pesava fortemente nei confronti delle scrittrici; eppure, racconta Loy in un’intervista, all’uscita del suo primo libro già aveva chiuso il secondo, La porta dell’acqua, «Segno che credevo molto in me stessa». Da Natalia Rosetta prenderà anche la convinzione che è la giustizia, e non la carità (come per il cristianesimo), la virtù più grande dell’essere umano.

IL GRANDE SUCCESSO di pubblico arrivò nel 1987 con Le strade di polvere, vincitore del Premio Campiello, Viareggio e Rapallo. La storia di una famiglia monferrina si intreccia, in questo maestoso affresco di stile e memorie, a un Ottocento vivo, presente, raccontato con una scrittura ricca ed elegante, tra le migliori che ci è dato in dono di leggere. «Sarà il libro che cambierà la mia vita; ma contrariamente a quello che uno si aspetta il suo successo mi toglierà quella cieca fiducia in me stessa quando non ero ‘nessuno’. E potevo aspirare a essere ‘tutto’».

L’insistere su pochi temi ma perfettamente variati, il tornare testarda come un’ape ad anni che ancora parlano, a volerli ascoltare, di libro in libro, è stata, come ha notato felicemente Paolo Di Paolo, la dimostrazione che la scrittura può «scavare, scavare, cercare ancora, insistere, ostinarsi. Per capire, per trattenere, per non perdere».

E da questa stessa esigenza nasce il recente Gli anni fra cane e lupo, il racconto firmato dalla scrittrice romana dell’Italia ferita a morte dalle grandi stragi e insabbiature di Stato all’ascesa di Berlusconi, dalla morte dell’ultimo ministro delle partecipazioni statali all’assassinio di Pasolini, dalla caduta dell’aereo di Mattei a Mediaset e alla resa di uno Stato incapace di tener testa alla mafia ramificata ovunque nel Paese. Un libro scritto da Rosetta Loy per i suoi nipoti, per una generazione che faticosamente riesce a sapere, a ricostruire, ad analizzare con la complessità che inevitabilmente le è dovuta la nostra multiforme (e informe) contemporaneità.