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Rose + Croix, geste esthétique accarezzando l’Idea

Rose + Croix, geste esthétique accarezzando l’IdeaAlexandre Séon, «Le Sâr Joséphin Péladan», Lione, Musée des Beaux-Arts

Rose + Croix, un capitolo del simbolismo fin-de-siècle di scena alla Collezione Guggenheim di Venezia Fra il 1892 e il 1897 si sviluppa a Parigi, intorno al mistico eccentrico Joséphin Péladan, l’arte rosacrociana, reazionaria e «avanguardista»

Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 26 novembre 2017

Il 10 marzo del 1892, presso la galleria Durand-Ruel di Parigi, si svolge il primo Salon dell’Ordre de la Rose + Croix du Temple. È il primo geste esthétique pensato e diretto dal mistico eccentrico Joséphin Péladan, la cui eco giunge, a più di dieci anni di distanza, persino nelle cronache mondane della Recherce proustiana. La stampa coeva si mobilita pro e contro questa vera e propria réaction idéaliste. Péladan provoca un forte scompiglio culturale con il suo evento che, nonostante l’elitismo spirituale che lo ammanta, riscuote un grande successo di pubblico.
La prima mostra dei Rose + Croix (cui seguono fino al 1897 altre sei edizioni, sempre in luoghi diversi di Parigi, ma sicuramente di minore impatto mediatico) è sostenuta finanziariamente dal conte Antoine de La Rochefoucauld, che insieme a Péladan (mistico sì, ma anche scaltro imprenditore culturale) sceglie artisti internazionali per un’azione espositiva nuova rispetto ai soliti Salon «bazar» parigini. Anche se non unitaria come le edizioni successive, la prima mostra deflagra nell’epoca del positivismo trionfante. Péladan offre l’innesco per un Idéalisme che è già in sé materiale esplosivo: questo l’«effetto Rose + Croix» più dirompente.
Sâr vale a dire «guida»
Esoterico e cattolico in odore di scomunica, nonché monarchico e reazionario, Joséphin Péladan, o Sâr Merodack, come si fa chiamare (Sâr, che nell’antico ebraico e assiro significa «guida», e Merodack che deriverebbe dal nome di un re babilonese), impone la sua visione mistica all’evento. Stila un manifesto dottrinario dove non si ammettono paesaggi e nature morte. Nessuna scena domestica. Niente che abbia a che fare con il dato storico, reale o di natura, se non in una prospettiva idealizzante e spiritualista. Nessun naturalismo, dunque. E neanche gli «impressionismi» vengono tollerati. Per i discepoli rosacrociani la regola è di presentare opere, senza alcuna preferenza tecnica, ispirate a fonti letterarie, leggendarie, mitiche, meglio se di carattere onirico o allegorico, che esprimano un’arte al servizio della «bellezza».
Émile Bernard, reduce dall’esperienza sintetista di Pont-Aven e dalla rottura con Gauguin, in un impeto di fervente ritorno allo spirito religioso, aderisce all’iniziale manifestazione rosacrociana, che in uno scritto tardo commenta come la prima importante mostra simbolista. Le opere cui il Sâr Péladan si ispira sono le esperienze proto-simboliste di Puvis de Chavannes e Moreau. Artisti entrambi che avrebbe voluto nelle proprie mostre, insieme a Odilon Redon, Denis, e ai preraffaelliti George Frederic Watts e Edward Burne-Jons. Ma i vecchi maestri si rifiutano. Eppure Moreau, pur diffidando del Sâr, incoraggia i suoi allievi più fedeli, Rouault e Béronneau, a prendervi parte. Altrettanto fa Puvis con i seguaci Séon e Osbert. Così come vi partecipano, tra calcoli di convenienza e reali convinzioni dottrinarie, astri nascenti della scena internazionale come lo svizzero Hodler e l’italiano Previati. Il tutto celebrato in una mostra pensata come un rituale mistico-esoterico, attraverso un’azione che ha provocato all’epoca una vasta gamma di reazioni: dalle spirituali esaltazioni di accoliti e ammiratori alle più mondane battute di spirito della satira.
Le esposizioni organizzate dal Sâr Péladan sono ora l’oggetto della mostra Simbolismo mistico. Il Salon de la Rose + Croix a Parigi 1892-1897, curata da Vivien Greene, è visibile presso la Collezione Peggy Guggenheim di Venezia fino al 7 gennaio prossimo (catalogo «in stile» a cura della stessa Greene per le edizioni Guggenheim Museum Pubblications). Seconda tappa dopo la Guggenheim di New York, la mostra è la prima nel suo genere, in quanto tratta, attraverso una quarantina di opere e vario materiale documentario, un aspetto specifico del Simbolismo fin de siècle.
Già nel 2010, con la mostra Utopia matters: dalle confraternite al Bauhaus, Vivien Greene, Senior Curator dell’arte di Otto e primo-Novecento presso la Guggenheim di New York, sondava l’evoluzione di varie forme di spiritualismo tra i due secoli nelle pratiche artistiche occidentali. Ma se lo studio all’epoca era di carattere generale, stavolta, indagando il solo fenomeno rosacrociano, si comprende bene il nodo anti-modernista e a un tempo modernista che questi tipo di simbolismo rappresenta, il nodo cioè che lega insieme le istanze spiritualiste delle confraternite passate (come i Nazareni e i Preraffaelliti) alle future spinte avanguardiste.
Le mostre dottrinarie di Péladan nascono nel segno dell’opera d’arte totale di Wagner. Ispirato da una rappresentazione del Parsifal al Festspielhaus di Bayreuth, il Sâr, che dedica ben quattro tomi all’opera teatrale del compositore tedesco, inventa i suoi Salon e si attornia di artisti che vivono delle simbologie e del culto wagneriani. Tra questi vi è l’aristocratico spagnolo Rogelio de Egusquiza, in mostra con una greve incisione presentata nell’edizione del 1896 e intitolata Il Santo Graal, dove la colomba bianca, emblema dello Spirito Santo, immersa in una vaga atmosfera medioevale da saga arturiana, risorge, nel sacramento eucaristico, dalla coppa del sangue di Cristo così cara all’Ordre de la Rose + Croix.
Al di là di espliciti riferimenti a Wagner, e, a suo dire, «senza alcuna preferenza di scuola», Péladan ossequia il principio del Gesamtkunstwerk aprendo a tutte le manifestazioni dell’arte, ferma restando l’idéalité della concezione dell’opera. Per questo anche la musica vi svolge un ruolo importante. Erik Satie, ad esempio, che già aveva lavorato a brani per opere teatrali del Sâr, in occasione della prima mostra compone alcuni pezzi sperimentali, tra cui le Sonneries de la Rose + Croix, utilizzando il computo greco della sezione aurea come principio organizzativo della partitura. Ma il repertorio musicale scelto, e quello artistico in generale, non è univoco, e la mescolanza di suggestioni, dal sacro al profano, dai Primitivi al Barocco, servono a veicolare stati d’animo molteplici e partecipazioni emotive di estasi e contemplazione.
L’idolo della perversione
E così da L’idolo della perversione di Jean Delville, rappresentante il feroce archetipo della femme fatale, si passa allo stereotipo opposto della femme fragile nel ritratto campestre di Giovane santa di Henri Martin. Dal pagano tema dell’Orfeo di Marcel-Béronneau, al misticismo di Aprile o Santa Cecilia di Armand Point, si attraversano riferimenti culturali e stilistici che vanno dal simbolismo di Moreau alle influenze tardo-quattrocentesche di Botticelli. Anche il ritratto trova un suo posto nei Salon, dove, bandito in chiave naturalista, viene accettato in una prospettiva idealizzante, soprattutto se utile alla mitopoiesi del Sâr stesso (come nella versione pseudo-sacerdotale che ne offre Alexandre Séon), o a celebrare le figure ispiratrici dei Rosa + Croix, tra cui Baudelaire, Verlaine e Wagner (come nei ritratti xilografici di Félix Vallotton, anche se non allineati alla mitomania rosacrociana).
Nel suo romanzo-culto À Rebours (1884), Huysmans sintetizza bene il pensiero di un artista décadent e della sua resa dei conti con la realtà, quando esprime il dovere di modificare la vita «fino al punto di annullarla, sostituendo un ideale di poesia alla squallida prosa del quotidiano». E se c’è una cosa che l’esperienza di Peladan e dei rosacrociani riflette, è che Parigi, nelle sue ansie sismiche di fine secolo, sviluppa un elevato tasso di permeabilità al nuovo e all’insolito. Sa di esserne l’epicentro e si prepara ad amplificare le scosse nelle avanguardie del primo Novecento.

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