Pesaro dedica due focus all’avanguardia di altrettante registe donne: sono Rosalind Nashashibi e Milena Gierke. L’una di sangue palestinese e irlandese che equivale a dire di avere nei geni due affluenti di una stessa storia di violenza e resistenza, che affonda le radici in una spartizione: quella dell’Irlanda nel 21, quella della Palestina nel 48. Nashashibi è nata però a sud di Londra, nel centro metropolitano e narrativamente fecondo di Croydon (da quelle parti hanno vissuto e operato, e lo hanno descritto, Arthur C. Doyle, D.H. Lawrence, Emile Zola e perfino un giovane Raymond Chandler) e se c’è lacerazione nel suo dna si stempera e ricompone nella quiete meticolosa di paesaggi urbani, quadri per l’esattezza. Ecco, i quadri: la regista di film in 16 mm realizza anche dipinti e stampe, e la sua vocazione e formazione legata alle Belle Arti affiora anche negli audiovisivi. Il cinematografo è, in ossequio all’etimo, davvero immagine in movimento per lei e per l’altra protagonista degli speciali pesaresi, la tedesca Gierke, anche lei artista dalla formazione doppia: in cinema a Francoforte, e in scultura a New York; per Milena Gierke la cifra è la cadenza, e la scansione: quella del proiettore, quella dei gesti, del ritmo delle cose della natura di cui la cinepresa è un metronomo. Il movimento è misura nei suoi lavori che inquadrano come appunti visivi in uno sketchbook scampoli di vita, anche nel caso di Gierke, urbana. Sezioni rappresentative di esistenze assortite, ponderate e soppesate dallo sguardo della regista: una agrimensura visiva. Sia per Nashashibi che per Gierke i testi critici nel catalogo pesarese chiamano in causa pittori e le loro tele, rispettivamente Velasquez e Matisse.

Rosalind Nashashibi, finalista del prestigiosissimo premio d’arte britannico Turner , ha avuto un contatto ravvicinato col pittore spagnolo della corte, in una residenziale vissuta, privilegio raro, dentro la National Gallery di Londra nel 2020. Un lockdown raro e prezioso. Il quadro che, durante quell’esperienza, ha ispirato la regista e pittrice la sua tela An Overflow of Passion and Sentiment, è una scena di caccia con protagonista re Filippo IV e un pubblico di popolo, cortigiani e curiosi in un fuoco incrociato di vedute, allegoria della rappresentazione artistica dove ogni sguardo ne reclama un altro in un gioco di specchi. Questo accade anche nella sua filmografia: come in Carlo’s Vision, che prende le mosse da Petrolio di Pasolini; la chiamata a raccolta dei punti di vista per la video artista infatti contempla anche la consegna di lasciti intellettuali altrui: in forma di quadri o pagine di letteratura o di altro linguaggio non importa. Open Day è carrellata su scene di vita collettiva, assorta e affaccendata anche nei suoi momenti ricreativi, in cui le persone guardano e sono vedute in una palestra di yoga, in uffici appunto open space dove si scrutano monitor, lungo pareti di freeclimbing; in Eyeballing sono le cose antropomorfe ad essere dotate di capacità ispettiva. Il mondo dove si affastellano sguardi come le carte su un tavolo da gioco è servito in porzioni piccole: la striscia di Gaza (Electrical Gaza) è densa di visioni come i pescherecci napoletani di Bachelor Machine Part 1 e Part 2.

La famiglia è essa stessa una dimensione abitata e sovra popolata come una società in scala: così in Hreash House, e disordine di sguardi e strati d’animo è il giardino di Viviana nel documentario (Vivian’s garden) che si intitola così. Con precisione fiamminga Nashashibi popola e ritrae microcosmi che se fossero dentro un film di animazione somiglierebbero a quelli stipati sotto il pavimento di Arietty, di Miyazaki (film tratto dal romanzo di una donna inglese: Mary Norton). E qualche volta anche Nashashibi diventa magica, ad esempio in Denim Sky, dove l’avventura interstellare è tra le mura domestiche e il colore del cielo quello robusto e quotidiano di una tela jeans, come l’azzurro stoviglia di Gozzano. Tra visioni e matericità si muove anche Milena Gierke, video artista e video artigiana, che propone brevissimi Super8 a colori, silenti e intimi ma a tratti di notevole potenza civile dove il rumore del proiettore è una colonna sonora, e dove i suoni evocati affiorano. Sono i rumori di famiglie in un interno, nel New Jersey durante i preparativi del Thanksgiving, ma anche quelli di spazi aperti e naturali: il movimento (del grano spazzato dal vento o dalle lame dei trattori) fa materializzare il suono e il ritmo, come accade con le percussioni e le batterie suonate con virtuosismo anche dalle persone sorde. La regista dà grande attenzione agli spazi e ai volumi e c’è molta architettura nella sua filmografia: la Karl-Marx-Allee, la strada di Berlino tra i quartieri di Mitte e Friedrichshain, fitta di edifici in stile classicista socialista.

Il ristorante in stile Bahaus sul fiume Elbe, il Korhaus; l’edificio noto come «Unité d’habitation» di Le Courbusier a Marsiglia, quello avito, in Ucraina, dentro un vecchio mulino nel villaggio di Mikulince, lasciato forzatamente dalla nonna della regista all’età di tre anni, filmato in un viaggio a ritroso nella memoria familiare. E ancora il palazzo che l’architetto Hans Poelzig ha progettato per la IG-Farben a Francoforte sul Meno: in diciannove minuti muti di alternanza di colori e bianco e nero la regista tratteggia la parabola del colosso chimico tedesco nato con la produzione di vernici e solventi, cuore finanziario del regime di Hitler e fornitore ufficiale dell’insetticida e topicida (lo Zyklon-B) utilizzato nelle camere a gas dei lager. «Percepisco l’architettura come scultura e ne sento ogni centimetro. Vive in ogni scorcio e momento che risente di condizioni atmosferiche e cambiamenti di umore. Significa che filmare l’architettura è, per me, implica per me lo stesso tipo di percezione momentanea che mi dà l’osservazione delle persone, e questo è accaduto specialmente guardando questo edificio» ha spiegato la regista scultrice.