«Room» di James Thierrée, una stanza indisciplinata
A teatro Nell'ultima sua creazione - per RomaEuropa - il caleidoscopico nipote di Charlie Chaplin, ha dato vita a un musical acrobatico ed esplosivo
A teatro Nell'ultima sua creazione - per RomaEuropa - il caleidoscopico nipote di Charlie Chaplin, ha dato vita a un musical acrobatico ed esplosivo
Può una stanza diventare la giostra che ospita una sarabanda infernale, trascinando i suoi «abitanti» in un tourbillon che prevede musica fai-da-te, arredo fantasy, danze scompigliate e disarticolate, voli circensi di corpi senza più peso, canti di un romanticismo struggente e una lotta ancestrale con mostri luccicanti?
SÌ, SE L’ARCHITETTO di questa camera dalle pareti semoventi che vorticano e si aprono verso il pubblico in sala, è quel James Thierrée che abbiamo conosciuto attraverso altre visioni oniriche (da Au revoir parapluie a Tabac Rouge fino a Raoul dove anche le teiere avevano una loro personalità). Qui, nell’ultima sua creazione, Room, il caleidoscopico nipote di Charlie Chaplin (l’artista, 48enne, è figlio di Victoria Chaplin e Jean-Baptiste Thierrée, è praticamente nato nel circo e ha anche interpretato il bianco e inglese clown Footit, compagno di spettacoli del nero Rafael Padilla nel film Mister Chocolat, dedicato alla coppia che incantò la Belle Epoque), ha riunito per la prima volta un cast di strumentisti per dar corpo a un musical acrobatico ed esplosivo, a tratti sgangherato e imprevedibile come è la vita stessa: l’esperienza con il festival Romaeuropa ed è replicabile fino a domenica (al teatro Argentina).
James Thierrée è una specie di demiurgo (in alcuni momenti disperato, in altri smarrito nella sua stessa fantasmagoria) che non riesce a disciplinare gli indomiti personaggi (in cerca di autore) di quella stanza dionisiaca. Dentro – e fuori, dato che gli spazi sbriciolano i loro confini – si mescolano gli echi di gran parte della storia del Novecento d’avanguardia: si va dai rumoristi del futurismo alle apparizioni dadaiste, fino a Mejerch’old e allo straniamento brechtiano.
Qui è una specie di demiurgo che non riesce a disciplinare gli indomiti personaggi (in cerca di autore) di quella stanza dionisiaca.
GIOCA THIERRÉE anche con i linguaggi, che ama mescolare impastandoli insieme alle diverse temperature emotive, in una scala che va dalla rabbia all’amore languido fino al distaccato sarcasmo. Musica di propria mano – dall’opera al rock sfrenato – e narrazione che procede per illuminanti frammenti e solo per evocazioni perché, dice, «il corpo è il mio strumento di lavoro, l’unico vettore delle emozioni, è l’espressione di cose su cui non abbiamo alcun controllo». Come in Room, dove ognuno si perde e si ritrova in una ridda di immagini e sensazioni bizzarre.
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