Ronchi-Poveromo, cosmopolitismo e ferite della Storia sul litorale apuano
Memorie del secolo Un trio di germaniste fra Marina di Massa e Forte dei Marmi, poi con gli anni accorsero molti «spiriti liberi», dai Wallerstein a Jollos, da Irene de Guttry a Calamandrei... «Le muse in Versilia» (1918-’68), Edizioni Storia e Letteratura
Memorie del secolo Un trio di germaniste fra Marina di Massa e Forte dei Marmi, poi con gli anni accorsero molti «spiriti liberi», dai Wallerstein a Jollos, da Irene de Guttry a Calamandrei... «Le muse in Versilia» (1918-’68), Edizioni Storia e Letteratura
Tra Marina di Massa e Forte dei Marmi, lungo il litorale tirrenico, si affacciano sul mare minuscole frazioni: Ronchi e Poveromo assunsero una loro atipica fisionomia. Marina di Massa ebbe un destino industriale imperniato sul marmo delle montagne apuane. Il Forte scelse la strada di una brillante mondanità. «Dopo Ronchi e il Poveromo (pinastri, prato, trionfo di pinuglioli, sentor di palude) sbocchi in una immensità vegetale, fuori del tempo» notò Massimo Bontempelli. Ronchi e il Forte erano distanti quasi sei chilometri, ma ebbero vicende molto diverse: due mondi. La fortuna di questo breve tratto di macchia mediterranea nacque dalla sconfitta delle ambizioni di Massa, che divenne la parente misera dei centri privilegiati dalla galante borghesia fiorentina. Ai primi del Novecento quell’area che sembrava destinata a una trascurabile rusticità divenne, poco a poco, un’enclave di spiriti eletti. Fianco a fianco stavano contadini dediti alle loro usuali fatiche e intellettuali non solo italiani, che trasformarono Ronchi-Poveromo in un edenico insieme per un buen retiro lontano dal frastuono delle chiassose divagazioni degli estivants di turno. Nella scacchiera ad aiuole furono costruite ville progettate da famosi architetti, ispirate a un moderno razionalismo – sulle quali si può ora consultare il fondamentale lavoro di ricognizione e schedatura, riccamente illustrato, di Massimiliano Nocchi e Silvia Nicoli: Le ville di Ronchi e Poveromo, architetture e società 1900-1970 (Pacini 2020, vedi «Alias D» del 20 dicembre 2020). Ogni residente, ogni ospite o pensionante era partecipe di un sistema, pur godendo di una rigorosa autonomia. Parlare di comunità è troppo concedere, ma l’atmosfera che si creò finì per conferire un’impronta atipica a quel pezzo di terra. In sé non aveva qualità particolari, se non la vista abbagliante delle protettive Apuane e una vegetazione e una fauna selvatiche di rara abbondanza.
Questo paesaggio e i protagonisti che lo popolarono è ora immaginabile grazie a un libro proposto dalle romane Edizioni di Storia e Letteratura, Le muse in Versilia Spiriti liberi a Ronchi-Poveromo 1918-1968 (pp. XIII-226, € 28,00). Ne sono autori Fabrizio Alberti e Francesca Bugliani Knox, che hanno evitato di compilare una patetica guida nostalgica. L’hanno raccontato giovandosi di un’accanita ricerca in archivi privati e pubblici, ripescando (e riproducendo) cartoline e fotografie d’epoca e intercalandole nel testo: i sei capitoli, più un intermezzo e una succinta antologia di brani letterari, hanno una patina evocativa, da confidenziale album di famiglia. Al tempo stesso il volume è uno spaccato di storia delle culture non ridotta a vanitosa scala localistica. Il mito di Ronchi-Poveromo risorge senza eccessi di erudizione e notiziole aneddotiche. Sarebbe improprio tenere una griglia cronologica sott’occhio e una mappa fitta di nomi per assaporare una narrazione debitrice di un saggismo non infarcito dalla smania di un’inutile pienezza.
Nel 1916 vi si formò spontaneamente un trio di donne: Carolina Agnetti detta Lola, insegnante di scuola media che alloggia nella stessa pensione della collega Lucia Paparella: si erano conosciute a Jesi, avevano in comune lo studio e l’insegnamento della lingua e della letteratura tedesche. Ed ecco entrare in scena la milanese Lavinia Mazzucchetti (1889-1965), che aveva fatto amicizia con Lucia a Milano. Tra Lucia, Lavinia e Lola nasce un sodalizio cui si aggiunge Dora Mitzky (1887-1973), glottologa austriaca. Il trio di germaniste Lucia Lavinia e Lola, anzi il quartetto comprensivo di Dora, che aveva conosciuto Lavinia a Monaco di Baviera nel 1913 e si era stabilita in Italia nel ’23, è animato da un solidale intraprendente fervore. Dopo il tragico conflitto si respirava un’aria nuova di libertà. Le notizie della violenta lotta politica che insanguinava l’Italia giungono nell’oasi del Poveromo attutite e frammentarie. C’era anche chi aveva sperimentato i costumi e le utopie in voga nel Monte Verità: un nuovo nome programmatico dato al Monte Monescia che s’innalza ai bordi del Lago Maggiore presso Ascona, o chi ne aveva appreso la fama. L’esperienza comunitaria era caratterizzata da spartane regole monastiche e retta da criteri cooperativistici. Accorsero da ogni parte personalità che nutrivano ribelli intenti alternativi alle idee prevalenti: di marca socialista o alimentati da un’ascetica religiosità. Tra i membri più noti August Bebel, Karl Kautsky, Martin Buber.
In Toscana si era immersi in un silenzio solare tra mare e cielo, le meditazioni non si tingevano di fremiti mistici, anche se erano percorse da una ventata spiritualistica, non ignara di ciò che accadeva nel mondo sconvolto dall’immane conflitto. La dominante femminile contribuiva a rasserenare i rapporti, a incentivare dialoghi. Nel 1924 sbarcò Irene de Guttry (1885-1950), talmente incantata dal luogo che sentenziò: «Siamo in Paradiso!». Un paradiso adatto a curare le patologie respiratorie del figlio. Per prolungare le sue permanenze fece erigere una casa che diventerà Villa Irene, amatissima da ospiti bizzarri. Non mancavano ombre e paure. Il racconto di Thomas Mann Mario e il mago – scritto nel 1929 sulla base di ricordi di qualche anno prima, allorché aveva passeggiato per gli stretti sentieri del Poveromo su invito di Lavinia, destinata a divenire traduttrice sistematica delle sue opere – registra un turbamento che sprigiona un drammatico sentore allegorico. L’innocente nudità di una figlia bambina, Elisabeth, durante uno spettacolo al Forte suscita scandalo agli occhi di signorotti fanatici di un’ipocrita disciplina. È avvertita come una «provocazione»: «I ragazzi ‘tutti per la patria’ fecero chiasso (…) un signore in abito cittadino (…) assicurò le sue indignate dame della propria decisione di procedere a misure correzionali». Giudizi in sintonia con l’oppressiva dittatura fascista.
L’elenco delle apparizioni e degli incontri è fittissimo. Transitano a Ronchi e Poveromo figure sempre connotate dagli autori con essenziali riferimenti biografici. Ecco la gentile Aline Valangin (1889-1986) nata a Vevey, in Svizzera, allieva di Jung, moglie di Wladimir Rosenbaum (1894-1984), immigrato russo, mercante d’arte che si adoperò per procurare rifugio a quanti erano perseguitati in ragione della loro religione ebraica. Il già citato Martin Buber (1878-1965), filosofo e teologo austriaco naturalizzato israeliano che soggiornò a Firenze per due anni, si fece portatore di un sionismo religioso, improntato a un’«intersoggettività» che spingeva a una civile e tollerante convivenza tra ebrei e palestinesi. Non aveva dimenticato uno dei principi-base esaltati al Monte Verità: «Il silenzio è il nostro simbolo, il simbolo che ci protegge dagli dei e dagli angeli dell’ingranaggio». Non ebbe un gran successo la via estatica da lui teorizzata.
Lavinia intrecciò un legame sentimentale con Waldemar Jollos (Mosca 1886-Melide, Canton Ticino 1953): l’aveva conosciuto nel luglio 1916 forse a Zurigo, prestigioso mercante d’arte che aveva pure lui frequentato il Monte Verità, entusiasta di una Naturphilosophie ostile alla civiltà industriale: «La solitudine – gli aveva scritto Lavinia il 4 marzo 1924 – e il verde sono magnifici. Le montagne sullo sfondo – la bella catena delle Alpi Apuane (…) Fa’ in modo di venire e godrai di molta bellezza e pace, aria buona e mare immenso». Più avanti, nel ’46, sarebbero convolati a nozze. Il prolifico scrittore Wilhelm Speyer (1887-1952) venne in Italia con Walter Benjamin (1892-1940) nel 1929, che visitò molte città toscane tra le quali San Gimignano: «Anche le piazze sono cortili, e in tutte ci si sente al riparo». Come al Poveromo. L’inquieto squarcio di una sconvolta Mitteleuropa non fu più il sicuro rifugio sognato. Lo spettro delle leggi razziste antiebraiche dissolse l’idilliaco clima.
Max Reinhardt (Baden 1873-New York 1943), eccelso regista, soggiorna ai Ronchi nel 1933: memorabile la rappresentazione nei giardini di Boboli da lui concepita, alla prima edizione del Maggio fiorentino, del Sogno di un notte di mezza estate. Lothar Wallerstein (1882-1949) e il fratello Victor (1878-1994), entrambi di Praga, rimasero ai Ronchi cinque mesi. Il contratto che Victor era riuscito a stipulare col Maggio fu annullato per motivi razziali. Il cosmopolitismo che regnava in un’area per molti enigmatica inevitabilmente si sgretolò. Gli italiani che ne condivisero aperture e spessore erano ansiosi. Piero Calamandrei (1889-1956), che si installò al Poveromo dal 1940, temeva gli effetti che in Italia avrebbe provocato la furia germanica. Il 16 agosto 1940 annota nel Diario cupe previsioni: «Sono andato, ieri sera, a letto di malumore. È vero che per ora l’offensiva di Hitler appare una vanteria, e che la data è scaduta senza che le minacce si siano compiute. Ma insomma i discorsi che circolano penetrano nel sangue e avvelenano ogni speranza». Luigi Russo, ben più pessimista, si sfogava in tonanti invettive e – scrive a Pietro Pancrazi – «squillanti risate». L’Inventario della casa di campagna dell’umanista Piero fu elaborato per offrirlo in dono agli amici tra l’agosto ’39 e l’estate ’41: intima memoria di un universo perduto (quest’anno per la nuova edizione, sempre da Storia e Letteratura, Silvia Calamandrei l’ha arricchito di testimonianze e integrato con scrupolo definitivo). Il 14 settembre Calamandrei abbandona l’incantata boscaglia del Poveromo: «Di tutte le giornate dolorose che si susseguono da cinque anni, la più angosciosa è stata quella del 12 (ieri l’altro), l’ultimo giorno passato al Poveromo, quello in cui si è verificata la ipotesi da me fatta nel 1939 quando, entrando ad abitare la nostra villa, previdi che vi sarebbe venuto ad alloggiare un comando tedesco».
Nato dalla diaspora di una guerra, quel lembo di Versilia diventava un paradiso perduto. Lontani i giorni in cui ci si sarebbe potuti imbattere in Filippo Sacchi, Eugenio Medea, Alberto Savinio, Niccolò ed Elena Carandini, Mario Mafai, Mino Maccari, Carlo Carrà, Ignazio Silone, Adriano Olivetti, Giulio Einaudi, Franco Antonicelli, Italo Calvino. Appartati all’estremo nord Roberto Longhi e Anna Banti. A furibonda tempesta placata, parecchi ritornarono – quasi in pellegrinaggio – ad aggirasi dove avevano vissuto una stagione luminosa.
A chiusa del volume, l’ammirata oasi – attesta Silvia Carandini – era irriconoscibile e Luca Bergamaschi (nel suo contributo) resuscita dall’«ombra del passato» i fantasmi di un continente lacerato e diviso. Aline Valangin fu di frequente a Ronchi-Poveromo. Nel Diario postumo trasmette l’amarezza di uno sconsolato lamento: le sembrò di essere «un po’come quella principessa della fiaba che ‘rientrando nella sala, trova tutto mutato:le splendide stanze vuote, mezzo distrutte, ovunque macerie e rovina’».
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento