La gestualità accompagna il racconto, enfatizzando espressioni spontanee o magari consapevoli. Nelle fotografie di Ron (Ronald Edward) Galella (Bronx, New York 1931 – Montville, New Jersey 2022) esposte in occasione della retrospettiva Ron Galella, Paparazzo Superstar. Il fotografo delle Stelle, curata da Alberto Damian a Palazzo Sarcinelli (fino al 29 gennaio 2023) e prodotta da Sime Books in collaborazione con il Comune di Conegliano, Dustin Hoffman è colto con il teleobiettivo in un momento di relax «scomposto» a Forest Hill, New York, il 26 agosto 1978, durante la 7/a edizione del Pro-Celebrity Tennis Tournament. L’attore dialoga a distanza con l’autore dello scatto, mettendo le mani a cannocchiale davanti agli occhi.
Molto più vezzosamente la regale Sophia Loren (la sfavillante parure di gioielli fa la sua parte) all’American Hotel dopo la première de Il Dottor Zivago (il marito Carlo Ponti, produttore del film, non si vede in questa foto, ma in altre è seduto accanto a lei) mimando la forma degli occhi risponde a Ron Galella che le aveva chiesto cosa trovasse di affascinante in Omar Sharif (per quell’interpretazione vinse il Golden Globe come miglior attore in un film drammatico), affermando che erano proprio i suoi occhi a colpirla.

«Pensavo che gli italiani avessero gli occhi più belli del mondo» – dice al fotografo – «ora credo che i più belli siano quelli degli egiziani!» Sempre in tema di «specchio dell’anima», che dire degli occhi magnetici di David Bowie al Booth Theatre di New York nel 1980 prima dello spettacolo teatrale The Elephant Man o di quelli un po’ diabolici di Jack Nicholson agli Academy Awards di Los Angeles del ‘78? Se, poi, Paul Newman sfoggia gli «occhi più azzurri di Hollywood», quelli di Robert Redford sono solo da immaginare dietro ai Ray-Ban a specchio; verdissimi (anche se veniva definita «diva dagli occhi viola») gli occhi di Elizabeth Taylor a Parigi, nel ’68, con una parure che gareggia con quella della Loren, penetranti quanto minacciosi sono quelli di Steve McQueen fuori dal set di Papillon a Montego Bay, visibilmente teso: e dire che aveva appena fatto un accordo con Galella.

L’attore gli concedeva 15 minuti per posare davanti al cartello «closed set – no admittance» e lui avrebbe preso il primo aereo per tornarsene a New York. In realtà, l’aneddoto riportato nel volume 100 fotografie iconiche. La mia retrospettiva Ron Galella (Sime Books, 2022) è molto più articolato, e parte dalla passionale storia d’amore tra Ali MacGraw e Steve McQueen che aveva portato in Giamaica il «paparazzo superstar» (a coniare l’epiteto era stata la giornalista Patricia Burstein nell’intervista che fece a Ron Galella, nel 1973, per il Miami Herald) sempre a caccia di scoop per le cover delle riviste americane: Esquire Classic, Harper’s Bazaar, Vogue, Rolling Stone, Life, The New York Times, Motion Picture, Cosmopolitan e tantissime altre. Ma lo sguardo più noto è senza dubbio quello di Jackie Kennedy in Windblown Jackie. La celeberrima immagine è stata scattata a Madison Avenue il 7 ottobre 1971.

«In questa foto sono racchiuse tutte le caratteristiche del mio approccio da paparazzo: esclusivo, senza aver fatto prima delle prove, inaspettato, spontaneo, senza appuntamento, e senza una seconda possibilità di rifare lo scatto – scrive Galella – Jackie sorride leggermente con le labbra e con gli occhi. Grazie alla morbida luce da dietro che le disegna le spalle, Jackie appare nel suo massimo splendore.
Era vestita in modo semplice, senza trucco, e con i capelli mossi dal vento, cosicché la sua naturale bellezza spiccava ancora di più. Grazie a un po’ di fortuna e ad una serie di combinazioni favorevoli, sono riuscito a scattare questa iconica per strada, da un taxi. Questa foto non sarebbe stata possibile nell’ambiente sterile di uno studio fotografico. Jackie ha reagito con naturalezza, senza sapere che fossi io, visto che il mio volto era nascosto dalla macchina fotografica. Non appena scesi dal taxi mi riconobbe, e si infilò subito gli occhiali scuri».

Per il fotografo di origine italiana (il padre era di Muro Lucano, in Basilicata, che nel 2009 gli ha conferito la cittadinanza onoraria e lui, generosamente, ha donato un cospicuo numero delle sue foto più iconiche, esposte permanentemente nel Museo archeologico nazionale) quella per Jacqueline Kennedy Onassis è stata una vera ossessione che gli causò non poche grane, tra cui una costosissima causa e l’obbligo di mantenere da lei una distanza di circa 15 metri.

Nel tempo è cambiata profondamente la professione del fotografo/paparazzo (in Italia tra i più celebri ci sono Tazio Secchiaroli e Rino Barillari): al giorno d’oggi sono le stesse celebrità ad auto celebrarsi sui social network facendo a gara per collezionare «followers». Ron Galella è stato un vero professionista (collaborava con lui la moglie Betty) che non tralasciava alcun aspetto del suo lavoro: sviluppava e stampava i rullini nella sua camera oscura, come si vede nel documentario Smash His Camera (premiato al Sundance Film Festival del 2010) che il regista Leon Gast ha dedicato alla sua lunga carriera. La determinazione e la costanza lo avevano aiutato a costruire il personaggio che era, insieme ad altri fattori imprescindibili: sfrontatezza e ironia. Certo, non deve essere piacevole essere oggetto dell’insistente attenzione di qualcuno che scruta nella tua vita privata ma anche questo, in un certo senso, fa parte del gioco quando si entra in certi meccanismi.

In Galella, fondamentalmente, c’era la curiosità di vedere le dive e i divi del cinema e della musica nella loro vita reale, senza maschere. Egli coglie la spontaneità delle espressioni anche nel rapportarsi tra loro, ma non ne mostra mai i lati grotteschi o volgari. Quanto all’ironia è documentata in più di uno scatto in cui compare anche lui con le macchine fotografiche al collo.

Uno, certamente, è quello del ’74 di Paul Schmulbach al Waldorf Astoria Hotel di New York, dove il paparazzo è alle spalle di Marlon Brando che in una precedente occasione gli aveva spaccato la mascella e più di un dente: per questo Ron indossa il casco da baseball con su scritto il suo nome. Ma c’è anche chi, come Andy Warhol, lo considera il suo fotografo preferito, affermando che «una buona fotografia deve essere a fuoco e ritrarre una persona famosa mentre fa qualcosa di non famoso. Il suo essere nel posto giusto al momento sbagliato».