Romuald Karmakar, animali allo specchio
Cinema Intervista al regista franco-tedesco, domani presenterà a Filmmaker Festival il suo nuovo documentario «The Invisible Zoo»
Cinema Intervista al regista franco-tedesco, domani presenterà a Filmmaker Festival il suo nuovo documentario «The Invisible Zoo»
«È assurdo che distruggiamo gli habitat degli animali in tutto il mondo e poi li ospitiamo negli zoo, ma così funziona» afferma Romuald Karmakar quando ci incontriamo in videochiamata. Il regista franco-tedesco, classe 1965, ha una lunga carriera alle spalle ugualmente divisa tra film documentari e di finzione. Nei suoi lavori ha affrontato alcune delle pagine più buie della storia tedesca; Deathmaker (1995), il suo film più visto, che valse la Coppa Volpi per il miglior attore a Götz George, si basava sulla trascrizione degli interrogatori di inizio Novecento al serial killer e violentatore Fritz Haarmann.
Il suo nuovo film, The Invisible Zoo – presentato al Forum della Berlinale, sarà domani a Filmmaker Festival a Milano, alle 20.30 alla Cineteca Arlecchino, alla presenza del regista – è un lavoro d’osservazione sullo zoo di Zurigo, considerato «un’eccellenza» in Europa. La camera di Karmakar trasporta lo spettatore nella temporalità della vita animale in cattività e nell’organizzazione umana che scandisce il funzionamento di questo luogo così contraddittorio, lasciando a chi guarda la responsabilità del giudizio.
Cosa l’ha spinta a filmare lo zoo di Zurigo e perché il progetto è durato otto anni?
La mia idea era di girare allo zoo di Berlino, la città dove vivo, ma per problemi con l’amministrazione e lo staff ci siamo dovuti fermare e cercare un altro luogo. Poi c’è stata la pandemia di Covid, con gli zoo chiusi, e infine il lungo periodo di montaggio, avevo 6500 sequenze. Sin dall’inizio, ho adottato tre punti di vista: quello dei visitatori, quello degli animali e quello degli amministratori. Per vedere gli animali il visitatore è costretto a aderire alla prospettiva costruita per lui, c’è un’architettura del paesaggio che entra in gioco. Volevo riprendere gli animali da vicino per capire meglio il loro carattere e i suoni che emettono, ma non sempre ci sono riuscito: con i lupi, ad esempio, è impossibile perché hanno un olfatto così sviluppato da cogliere la differenza d’odore tra me e l’addetto dello zoo, e così rimanevano distanti. Alcuni animali, come le antilopi, sono sempre attente a mantenere una distanza che permetta loro di fuggire, mentre altri sono più curiosi della telecamera come le zebre. Ogni animale è diverso.
Vedere gli animali nello zoo non può non farci pensare agli esseri umani che li hanno rinchiusi lì.
Lo zoo nasce nell’ambito della cultura europea, le radici sono nella caduta dell’impero bizantino verso la fine del XV secolo quando la strada con l’India fu chiusa dagli ottomani. Allora i portoghesi cercarono di raggiungere l’Asia per mare e gli animali esotici tornarono a essere presenti in Europa, dopo essere spariti con la fine dell’impero romano. Colombo poi quando tornò in Spagna portò con sé molti animali mai conosciuti prima, come i pappagalli sudamericani e i tapiri. Ci sono molte storie che si intrecciano in quel periodo, come il famoso rinoceronte che Albrecht Dürer dipinse nel 1515: l’animale fu un regalo del maragià alla corona portoghese, la quale lo regalò a sua volta al Papa, ma nel tragitto affogò. L’immagine divenne molto famosa perché Dürer la realizzò senza vedere mai l’esemplare. In questo contesto si iniziò a progettare spazi per gli animali esotici nell’ambito dei palazzi reali, parallelamente allo sviluppo della cultura botanica. Poi è arrivata la Rivoluzione francese, ma solo dopo la Seconda guerra mondiale è stato possibile per molta gente comune andare allo zoo e «scoprire il mondo» per pochi spicci. Può piacere o non piacere, ma questa parabola degli animali ci permette di comprendere la storia. Oggi, nelle città industrializzate, sono scomparsi i grandi animali come i cavalli e si diffondono sempre di più i piccoli animali domestici, quasi come delle «bambole» che regaliamo ai bambini. La relazione tra umani e animali è un problema antico, nella Bibbia se ne parla moltissimo, dalla Genesi in poi. Lo zoo è senz’altro uno specchio di come li trattiamo, a Zurigo affermano che il loro scopo è creare una sensibilità verso le specie a rischio estinzione.
La diffusione delle immagini sul web renderà gli zoo obsoleti?
In molti lo sostengono ma io credo che ognuno debba decidere per sé, se preferisce vedere un elefante allo zoo o se cercarlo su google. Sempre che non ci si possa permettere di andare in Tanzania, naturalmente.
Il titolo «The Invisible Zoo» a cosa si riferisce?
Ci sono diversi significati. Nel 1908 a Amburgo per la prima volta uno zoo fece scomparire le recinzioni, costruendo delle dighe tra i diversi habitat. E i visitatori vedevano così in un’unica prospettiva tutti gli animali insieme. In questo senso sempre di più si è cercato di rendere lo zoo «invisibile». Inoltre il riferimento è a questa capacità mimetica dell’ambiente che per me, come regista, avvicina molto lo zoo a un set cinematografico. È una «messa in scena» immersiva, che permette di sentire l’umidità del Madagascar mentre ci si trova su una montagna a Zurigo. Si utilizzano mattoni artificiali, si costruiscono montagne, si fa finta di essere in Cina o in Egitto, come a Cinecittà si costruisce l’ambientazione dell’impero romano, è la stessa grammatica.
Si tratta di manipolare l’ambiente e le emozioni…
Sì, è un’illusione che fabbrichiamo per noi stessi, così come ci ostiniamo a «umanizzare» gli animali, supponendo di capire cosa pensino. Abbiamo interiorizzato delle immagini molto cinematografiche e televisive delle diverse specie. Ad esempio, associamo il leone alla forza, una qualità che sicuramente possiede, ma è anche un animale molto poco dinamico, che dorme circa venti ore al giorno. Eppure l’icona è sempre del leone ruggente. Allo stesso modo, nei film gli animali vengono mostrati senza alcuna difficoltà mentre nella realtà, se si vogliono vedere degli scimpanzé nella giungla, bisognerà camminare tre giorni e tre notti, e sperare di scorgerne uno da lontano. Non vedere gli animali, che in termini di tempo è la parte di gran lunga più estesa rispetto al vederli, non fa parte della relazione che abitualmente abbiamo con loro perché mediata dalle immagini.
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