Chi si aspettava che il commissario Paolo Gentiloni rispondesse per le rime ai quotidiani attacchi del governo italiano è rimasto deluso. Gentiloni stempera persino più di quanto il suo poco bellicoso carattere facesse presagire: «Non voglio partecipare a polemiche che danneggiano l’Italia. Ci tengo al mio Paese e per questo non voglio alimentare e non alimenterò queste polemiche». Sipario sulla rissa settembrina.

In compenso il commissario nel mirino di palazzo Chigi sfodera toni concilianti su tutti gli altri fronti. Quello delle previsioni al ribasso prima di tutto: «Il rallentamento non è italiano in particolare, coinvolge molti Paesi e ho fiducia che l’Italia, come in tante occasioni, possa reagire in modo positivo». Se ci sono accenti critici riguardano casomai la Bce, e da quel punto di vista il governo italiano apprezza di certo: «La stretta monetaria influisce sulla crescita di tutti i paesi ma ha un ruolo particolare in Italia, dove il finanziamento delle banche dipende molto degli investimenti in economia». Sulla strategia anti-inflazione di Lagarde il giudizio di Bruxelles non è molto diverso da quello di Roma e in vista delle decisione su un nuovo rialzo o meno, in agenda fra tre giorni, sia i commissari che i governanti italiani tengono le dita intrecciate sperando che sia evitato.

Che la Commissione non abbia alcuna voglia di litigare con Giorgia Meloni si era già appalesato più volte. Sinora però anche la premier aveva evitato polemiche aspre. Stavolta invece il commissario e con lui tutta Bruxelles scelgono di non replicare a una raffica di attacchi violenti, precisi e tutti mirati proprio su Gentiloni. Almeno in parte, la scelta diplomatica di evitare anche l’ombra di un conflitto dipende probabilmente dalle grandi manovre già in corso in vista del dopo elezioni europee e delle strategie in campo che coinvolgono, se non tutto il governo italiano, certamente la donna che lo presiede e il suo partito.

Negli ultimi giorni sulla strategia europea della leader italiana dei Conservatori, il cambio di maggioranza a Strasburgo e la nascita di una nuova alleanza Popolari-Conservatori-Liberali, si sono abbattute docce gelate. Il presidente del Ppe Weber, cioè la principale sponda di Meloni nell’operazione cambio di maggioranza, ci ha ripensato: «I leader di Spagna e Germania sono socialisti, il presidente francese è liberale, il Ppe è il primo partito in Europa: credo sia ovvio che i tre partiti debbano sedersi insieme». La presidente dell’Europarlamento Roberta Metsola, perno dell’operazione tentata da Meloni, è altrettanto drastica: «Tra Ppe e Conservatori ci sono differenze distintive, che non cambieranno».

Sulla svolta che mette la premier italiana nell’angolo hanno pesato diversi fattori: l’opposizione di una parte importante della Cdu tedesca, la sconfitta a sorpresa in Spagna, che avrebbe dovuto costituire l’esperimento pilota grazie all’alleanza con Vox, forse anche la congiuntura di crisi, che consiglia la creazione di una maggioranza quanto più larga possibile. Dunque anche con i Conservatori, relegati però in posizione periferica. L’obiettivo non è tenere fuori dalla porta Giorgia Meloni, con il rischio di spingerla fra le braccia dell’odiato (e temuto) gruppo di Identità e Democrazia, quello di cui fanno parte la Lega, il Rassemblement National, la AfD. È invece coinvolgerla in una maggioranza anche con i socialisti, riproponendo la stessa strategia già vincente nel 2019 con il M5S allora al governo.

La Lega, già molto penalizzata nel 2019, spara a zero: «È assurdo che Weber insista nella strategia suicida dell’accordo con forze politiche che in questi anni hanno promosso un’agenda ideologica ed estremista», mitragliano i dirigenti leghisti a Strasburgo Zanni e Campomenosi. Indignazione rituale. In realtà Salvini si frega le mani. La svolta del Ppe mette nei guai la premier molto più di lui. Sull’ingresso nella nuova maggioranza europea Meloni ha puntato molte delle sue fiches: restarne fuori sarebbe una sconfitta cocente e un successo per i reprobi di Identità. Ma piegarsi a entrare in maggioranza con i socialisti vorrebbe dire presentare il fianco scoperto alle spade leghiste. Salvini brinderebbe per settimane.