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Roma, la bella addormentata d’Europa

Bicicletta Le riflessioni di un attivista ex responsabile della ciclabilizzazione della giunta di Virginia Raggi. Ha dovuto lasciare l'incarico, ma non si arrende: "La mobilità dolce deve dipendere dal sindaco, la burocrazia non deve ostacolare"

Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 8 febbraio 2018

In molti si chiedono cosa stia succedendo a Roma. Come tutti costoro anch’io, da romano e attivista della ciclabilità, mi arrovello da mesi sul punto doloroso del non cambiamento e qualche idea me la sono fatta. Voglio provare a offrire un punto di vista il più possibile scevro dalle cronache politiche, che pure interverranno qui e lì nelle parole che seguiranno. Cercherò di limitarmi al mio campo di azione, ovvero la trasformazione di Roma e per estensione dell’Italia in una capitale moderna nel suo modo di spostarsi
. Le premesse per un cambiamento della mobilità in senso moderno ci sono tutte: da decenni a Roma ci si sposta nello stesso identico modo che ho trovato e praticato fin da ragazzino negli anni 70 del secolo scorso: con tutta evidenza, un refuso della storia che non può non essere corretto. Giusto? 
Beh, pare che invece sia sbagliato. Tutti in macchina e moto o scooter, esattamente come ai tempi della 500 prima versione e del Ciao Piaggio; e nel frattempo l’offerta di mezzi pubblici è scesa, la popolazione aumentata, le dimensioni pure. In un mondo logico e dove la logistica degli spostamenti viene apprezzata come un valore tutto ciò è assurdo.

Partiamo dunque da questa evidenza, che non può essere descritta altro che come stasi. 
Negli ultimi decenni le uniche novità trasportistiche a Roma sono state il tram 8, le strisce blu (parcheggi a pagamento), lo sfioccamento della metro B in B1 (a treni invariati, si badi bene), la metro C che sembra quasi uno scherzo per come è fatta male e per l’immane truffa economica, le Zone a traffico limitato. Direi che qui finisce l’elenco. Dai primi anni del 2000, anche grazie all’importazione del fenomeno Critical Mass e alla crescente attenzione di fasce minoritarie ma attente della popolazione alle teorie della decrescita economica, è tornata alla ribalta la bicicletta come mezzo di spostamento quotidiano in città. Un movimento che è cresciuto fino a strutturarsi in una rete informale, e in alcuni casi (lo è a Roma) formali, salendo spesso all’attenzione pubblica proprio per le sue rivendicazioni di una modernità che in praticamente ogni angolo d’Europa è realtà e qui da noi ancora spacciato come utopia dai corifei del mainstream.

Le azioni spesso ai limiti della legittimità di questa piccola società in crescita hanno avuto l’effetto di, quantomeno, porre platealmente il problema: a Roma chi si sposta in bici è un partigiano della nuova mobilità e i suoi valori sono meritevoli di attenzione da parte della politica. 
E’ stato così che su chiamata diretta di Virginia Raggi mi sono ritrovato ad essere nominato responsabile della ciclabilizzazione di Roma. Un incarico che ho svolto per sei mesi, dal 19 ottobre 2016 (ma ero già sul pezzo “in incognito” dal 24 giugno) al 3 maggio 2017, e che fin dal primo momento mi è apparso palesemente impervio, finché non sono stato costretto a lasciarlo. Un’esperienza fallimentare? Forse, ma a mio parere no: perché adesso, dopo anni di attivismo, so e ho fatto sapere a tutti dov’è esattamente il problema del ristretto cerchio della gestibilità amministrativa di una società. Per formazione e attitudine tendo al futuro quindi non vorrei rognare ancora – l’ho già fatto sul mio blog, Rotafixa.it, per chi fosse interessato – sull’incapacità dell’amministrazione romana e italiana di costruire un futuro secondo le indicazioni della società contemporanea e del potere politico. Adesso vorrei che si riflettesse, io per primo, sulle cause generiche e sulle possibili soluzioni per una via d’uscita da quello che appare un vero incantesimo malvagio scagliato su Roma, la bella addormentata d’Europa.

I dati: a Roma e provincia circolano 1.185 mezzi privati ogni 1.000 persone (nella cifra si comprendono quattro e due ruote); la rete stradale è all’incirca di 5.000 km, grossomodo 8 volte quella di Milano. La percezione dell’area urbana, nei residenti, è quella di una città enorme. A poco vale ribattere che l’area di Pechino equivale a quella del Belgio, l’argomento non viene discusso e basta: Roma viene acriticamente definita “grossa”. 
Il non detto: tutti corrono ai limiti fisici delle loro possibilità, ovvero in relazione alla strada (libera, senza ostacoli e liscia equivale alla massima velocità, indipendentemente dalla normativa), ognuno parcheggia dove trova spazio, e nello spazio è compresa anche la parte della carreggiata dedicata allo scorrimento (le famose seconde e terze file).

In queste condizioni l’attuale parte politica al governo, seguendo le indicazioni delle esperienze estere, propone di sfavorire la circolazione privata, aumentare la quota di tpl e favorire la circolazioni di mezzi a impatto zero come le bici, oltre a favorire quella pedonale. Questa la teoria. 
La pratica si scontra con alcuni ostacoli apparentemente o realmente granitici: il possesso del mezzo privato ingombrante, del suo utilizzo in solitudine e del suo parcheggio gratuito, vengono vissuti come un diritto costituzionale; l’azienda di trasporto pubblico è di fatto fallita, con mezzi vecchi e problemi di ricambi e persino di carburante; la non fruibilità di spazi pubblici pedonali per le più disparate vicende (parcheggi abusivi, mercatini parimenti abusivi, varie ed eventuali tra cui cartellonistica improvvisata e occupazione dei marciapiede da parte dei ristoratori) ha portato il passeggiare a essere un’attività quasi elitaria, e non il classico “cavallo di San Francesco” delle generazioni precedenti.

In tutto ciò un ulteriore ostacolo è dato dalla normativa sull’utilizzo delle strade: abbiamo un codice della strada vetusto, e la sua rivisitazione in senso moderno messa a punto in questa legislatura giace da quasi tre anni in un anfratto del Senato, dopo essere passata alla Camera. Ne consegue un facile gioco dell’amministrazione cittadina a non accettare progettazioni non previste – ma neanche vietate – dal codice della strada. Un utile strumento presente e mai utilizzato nelle passate amministrazioni Veltroni, Alemanno e Marino, ovvero il sindaco nominato commissario straordinario per la gestione dell’emergenza smog, non è stata reiterata. Infine, la netta separazione tra indirizzo (politico) e gestione (amministrativa) già classica e in tempi moderni aumentata dalle varie riforme Bassanini impedisce, in assenza sostanziale di sanzioni all’amministratore che non aderisce alla richiesta della politica, di forzare un po’ la mano che deve firmare. Qui mi fermo, perché l’argomento è ovviamente noioso anche se ahinoi importante. 


Abbiamo dunque le mani legate? A mio parere no. Propongo due linee d’azione, una immediata e una a termine meno immediato. La seconda è quella di approvare alla velocità della luce (anche luce di candela va bene) il nuovo codice della strada. 
La prima, che riguarda solo Roma, è quella di chiedere al governo nazionale di ripristinare i poteri del sindaco per l’emergenza smog, e stavolta usarli davvero; e di accentrare conseguentemente il tema della mobilità dolce direttamente nell’ufficio del sindaco.

Trovo che la volontà politica, per esperienza diretta, ci sia, ed essendo un uomo di sinistra dunque apolide, senza casa politica e non aderente ad alcuna delle attuali caselle, credo di poterlo sostenere abbastanza oggettivamente. A mancare è ben poco, ovvero il rispetto da parte della burocrazia agli indirizzi della politica. Finora non sono stati usati quei pochi argomenti di moral suasion in mano alla politica, forse per timidezza o buona educazione. E’ ora di usarli senza perdere altro tempo.

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