L’ha mostrato Gladiator, oltre venti anni fa. Foreste fangose e fertili campagne, polverosi souk o città greche, piccole colonie periferiche o capitali risplendenti di ninfei e colonnati: erano i luoghi che componevano l’immagine di Roma, di un impero vario di paesaggi e di genti, di lingue e di dèi. In passato, un discorso nazionalistico fece credere che in quel mondo contasse solo il centro (quindi: una città, una lingua, un capo). In tal senso andava l’idea di «romanità» che ammorbò l’Italia nel ventennio fascista. A chi guardi con cura, invece, l’impero appare come realtà sfaccettata, che comprendeva differenti percezioni e visioni. Che cosa significava, stando a Roma, pensare le diverse province, più o meno culturalmente assimilate alla cultura romana, o greco-romana? E che cosa, invece, valeva la capitale per chi vi giungeva venendo da piccoli centri, spinto dall’ascesa sociale, dal mercato servile, o invece da una guerra? E che cosa suggeriva lo sguardo su Roma che partisse dal suburbio, o da un villa di campagna più o meno bucolicamente amena?

Da questioni simili muove un volume curato da Maria Luisa Delvigo, che raccoglie gli esiti di un incontro di studio (a distanza) del 2020 dedicato a Centro e periferia nella letteratura latina di Roma imperiale (Udine, Forum, pp. 508, € 28,00). Il tema è assai vasto e viene qui circoscritto, senza rigidità negli approcci: si mette a fuoco l’età imperiale, con particolare interesse per la documentazione letteraria. Sono esclusi quindi altri periodi, e anche gli sguardi «non-latini». Forse sarebbe stato utile, trattandosi di un impero (almeno) bilingue, dedicare uno spazio al mondo grecofono, da Strabone a Elio Aristide, e oltre: e anche Paolo di Tarso fece un viaggio dalla periferia al centro… Come osserva la curatrice, la cultura romana descriveva se stessa come «un centro di potere che allarga progressivamente il suo orizzonte temporale senza mai mettere in discussione la sua identità e la sua centralità», di volta in volta rispetto al Lazio, poi all’Italia, poi all’ecumene. Ai moderni, quindi spetta il compito di indagare quella centralità seguendo, oppure decostruendo, il punto di vista degli antichi: ciò che appunto accade nei diversi saggi del volume.

La conoscenza della periferia poteva dipendere da esperienza diretta, come è sicuro nel caso di militari e di mercanti. Nella cultura «alta» invece si trattava, molto più spesso, di una geografia «immaginaria», derivante cioè da libri e non da visione personale. Così nel caso importantissimo della Germania di Tacito, pervasa di modelli «coloniali», oscillanti tra idealizzazione e rifiuto, e però con tratti che nei secoli sono stati piegati a note esigenze razzistiche e politiche. Nell’Agricola di Tacito invece il caso della Britannia porta al concetto di «confine del mondo», a sua volta ambiguo tra politica, geografia e moralismo. Che i popoli remoti fossero poi soprattutto uno specchio attraverso il quale il centro si ridefiniva appare (oltre che in Tacito) anche in Giovenale: i suoi rigurgiti xenofobi riflettono soprattutto il disgusto per i guasti di una Roma irrimediabilmente corrotta, divenuta una città «greca» in cui si riversava a suo dire «tutta la feccia dell’Oronte»: come a dire che centro e periferia stavano perdendo la loro organica alterità.

Né sempre appare una reciproca opposizione. Per esempio, il contrasto città/campagna nasceva dal moralismo, più che da passione campestre: un filosofo sapeva che «si può essere felici ovunque», dunque anche in Roma, pur piena di attività frenetiche. Pagine brillanti di Seneca o Plinio mostrano che la villeggiatura insegnava quanto di superfluo gravava sulla vita urbana (dei benestanti, s’intende): non un’alternativa quindi, ma un complemento, utile ad acquisire una signorile moderazione. Anche il ceto, infatti, entra nella dialettica centro/periferia: al pastore virgiliano Titiro la città di Roma sembra svettare sopra le altre «quanto i cipressi sopra flessuosi viburni», e la campagna del bucolico Calpurnio è in felice simbiosi, non in alternativa, con l’Urbe; ma invece non viene raccontato da Petronio l’impatto dell’Italia su Trimalcione e i suoi amici, venuti dall’oriente mediterraneo. Assai suggestivo è il tema, poi, quando si consideri che la tradizione immaginava viaggi anche delle divinità (non solo dei loro riti): dunque culti «stranieri» arrivati (come Asclepio) e altri invece emananti dalla capitale; e l’intreccio diverrebbe inestricabile considerando il funzionamento del culto imperiale…

Opposta ed estrema esperienza della dialettica centro/periferia era certo l’esilio: evento così frequente tra i dotti, da generare una letteratura consolatoria di notevole interesse. Tra i numerosi casi, qui emerge quello emblematico di Ovidio. Da Tomi (l’odierna Costanza in Romania), il poeta tracciò in versi un ritratto nostalgico della Roma donde era stato allontanato, e un quadro studiatamente horridus della regione marginale ove era stato relegato. Ovidio lamenta, tra l’altro, l’inaridirsi della propria pratica in latino, alle prese con favelle barbare. Lo spirito «complesso e ambiguo» del poeta non lascia capire in quale misura tutto ciò fosse vero, ma richiama il fatto che del tema discusso fa parte anche il contatto (cercato o fuggito) tra lingue, portate a ibridarsi o a contrapporsi.

Oltre allo spazio geografico, c’è pure quello simbolico. Una iconica immagine che rappresenta la dialettica tra centro e periferia si riscontra nella descrizione virgiliana dello scudo di Enea, nel Libro ottavo dell’Eneide: un «oggetto impossibile», sul quale sono evocati fatti della storia romana, ma anche popoli pure remoti, secondo schemi o stereotipi etnografici di qualche rilevanza politica al tempo dell’Augusto. Né la relazione si colloca sempre nel segno della pace: proprio la conquista ecumenica, che portò eserciti romani in aree lontanissime dal «centro», emulando prototipi mitici come Dioniso o Alessandro, ne è segno chiarissimo: e qui, ancora, più che la realtà delle conoscenze contarono le parole dei poeti o gli oggetti degli artigiani e artisti, che rendevano evidente ai sensi le conquiste remote: funzione analoga, si direbbe, a quella rappresentata dall’esotismo zoologico delle venationes anfiteatrali, pure evocate da scrittori e artisti figurativi.
I contributi presenti nel libro sono l’esito di ricerche libere di studiare da moderni le percezioni antiche dell’impero di Roma, senza obbligo di ammirarne per sciovinismo la fatale potenza o per contro di condannarne per «correttezza» la sanguinaria oppressività. La disciplina che questi lavori esprimono non discende da idoli ideologici, ma dalla lettura dei testi secondo filologia. L’unica possibile.