Roma da cambiare insieme, accorciamo le distanze
A Roma, dice l’Inps, 1000 persone guadagnano più di 533mila euro annui. 8000 ne guadagnano 217mila euro. Dove finiscono tutti questi soldi dei privati?
A Roma, dice l’Inps, 1000 persone guadagnano più di 533mila euro annui. 8000 ne guadagnano 217mila euro. Dove finiscono tutti questi soldi dei privati?
Una visione! Tutti dicono che ci vuole una visione. Sulle elezioni romane dell’estate prossima, si moltiplicano i candidati, le interviste, gli appelli, ma mancano tante cose. A cominciare dai partiti che propongano classi dirigenti autorevoli.
Una società civile che sappia imporre temi radicali, e poi mancano le forze sociali, e infine mancano moltissimo gli intellettuali. Se tutti chiedono una visione, certo sarebbero gli intellettuali a dover dare una mano a dipingerla questa visione.
Eppure a Roma c’è una tradizione di intellettuali che ha ragionato soprattutto e soltanto su quella che con Marx chiameremmo la sovrastruttura: le ideologie del decoro e del degrado, il refrain del torniamo nelle periferie, il rito stanco dell’occorre fare rete… In un libro pubblicato da poco dalla casa editrice Bordeaux dedicato al più amato dei sindaci romani, Luigi Petroselli, Accorciare le distanze, tra i vari contributi interessanti ce n’è uno mirabile: il dialogo tra Alberto Moravia e Luigi Petroselli.
Era il 1975, Moravia era tra gli autori di Contro Roma, un’antologia di scrittori e intellettuali che lamentavano i mali della città, ognuno con una penna più dolente dell’altra. Roma è diventata un garage, dice Moravia con una retorica un po’ classista che in quarantacinque anni abbiamo imparato a vedere imitata in mille racconti della città.
Petroselli gli risponde, con un testo che ribalta il rapporto tra politico e intellettuale, rivendicando la potenza della lettura di classe della città e dell’impegno comunista: «Le forze di ispirazione marxista sono portatrici di un nuovo umanesimo che bandisce ogni integralismo. Nuovi valori di libertà e di tolleranza, di rispetto e di sviluppo della persona umana si affermano nella lotta e attraverso il confronto tra uomini reali di ispirazione ideale diversa, uniti da un comune progetto di risanamento e di rinnovamento, di riscatto e di ripresa economica, civile, morale. Non solo non vedo alternative a questa via nella battaglia per una Roma diversa, ma sono convinto che, su questa via, Roma può parlare al paese e percorrere, insieme a esso, un nuovo cammino».
Nella filigrana dell’esperienza di quello che viene considerato in modo unanime il migliore sindaco di Roma di sempre, si può notare un elemento che nei decenni successivi è andato a sparire: quella dell’elemento conflittuale nella buona amministrazione. Spesso si è immaginata la politica negli ultimi anni come un sinonimo di governance, di pensare che l’obiettivo del buon governo sia ottenere il consenso da tutti. Ma la politica vuol dire anteporre gli interessi di alcuni agli interessi di altri, vuol dire decidere da che parte stare, e anche l’amministrazione di una città non può sottrarsi a questa scelta di campo.
La buona amministrazione è davvero tale, possiamo dire, se è anche conflitto, e anche lotta di classe. Non lotta contro chi sporca, contro i vandali, contro chi genericamente non vuole bene alla città, e nemmeno contro gli speculatori e i palazzinari. Ma lotta tra chi può, attraverso rendite e posizioni di potere, determinare le politiche urbane e cerca di perpetrare dei privilegi, e chi in nome di quelle politiche viene emarginato, sfruttato, umiliato. Come vogliamo schierarci?
A Roma, nonostante la crisi e ora la pandemia, i super ricchi sono continuati a crescere, e crescere troppo, come d’altronde nel resto del paese: in Italia 400mila persone hanno un patrimonio finanziario che supera il milione di euro; le quote di ricchezza complessiva nelle mani di un ristretto numero di beneficiari aumentano esponenzialmente.
A Roma, secondo l’ultimo rapporto Inps, i top earners, ossia le persone che guadagnano più di 533mila euro annui, sono circa mille. Non pochi. Quelli che guadagnano più di 217mila euro sono circa 8mila. Facendo un rapido conto, messa insieme, la concentrazione di ricchezza – solo reddituale – di meno di 10mila romani (lo 0,3 per cento dell’intera popolazione della capitale) assomma a diversi miliardi di euro.
Dove finiscono tutti questi soldi dei privati? Quali sono le attività produttive che determinano questo reddito? Perché abbiamo una città sempre più povera e difficile da governare, e qualunque redistribuzione di reddito sembra impensabile persino da nominare?
Più che una visione generica, ci vuole studio e interpretazione, occorre non solo leggerle, per esempio, le bellissime Mappe della disuguaglianza di Keti Lelo, Salvatore Monni, Federico Tomassi sulla città di Roma, pubblicate l’anno scorso da Donzelli, che raccontano plasticamente la città dei salvati e quella dei sommersi, ma occorre saperle interpretare alla luce di chi ha riflettuto su come si generano queste disparità, e saper educarsi e educare a un attivismo civico che sia visionario certo, come è visionaria la lotta di classe.
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