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Rom a Roma, inclusione sociale zero

Rom a Roma, inclusione sociale zeroRom all'esterno del centro di accoglienza di Via Armellini a Roma – Lapresse

Diritti Al Tiburtino in 259 restano reclusi in un edificio non abitabile, in stanze senza finestre che fanno rimpiangere loro le baracche dalle quali sono stati cacciati. Nel frattempo nel «Mondo di mezzo»... La gestione post-Alemanno dell’emergenza «zingari» premia ancora la logica degli affidamenti diretti a consorzi e cooperative, lievitati in un anno del 30%

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 16 maggio 2015

Nella ex tipografia di via Visso nell’area industriale del quartiere Tiburtino, per un periodo sede della casa editrice Castelvecchi e oggi riconvertita in centro di raccolta dei rom sgomberati dal comune di Roma, le cose non sono cambiate da quando si è insediato il sindaco Ignazio Marino.

Nonostante proclami in tono minore e buone intenzioni di superare la stagione dei campi nomadi e di garantire un’abitazione decente ai suoi abitanti, l’ispezione del Presidente del Comitato europeo dei diritti sociali Luis Quimena Quesada e quella della Commissione per i diritti umani del Senato («non ho mai visto una cosa del genere», dichiarò esterrefatta la senatrice grillina Manuela Serra), i 259 ospiti di una struttura costruita per tutt’altri scopi che quelli abitativi sono ancora reclusi in quella che, chissà quanto ironicamente, è stata ribattezzata Best House rom, in stanze senza finestre che fanno rimpiangere loro le baracche e le roulotte dalle quali sono stati cacciati. «Soffro di claustrofobia e vivo con la mia famiglia in una stanza di dodici metri quadrati. Non si mangia, non si dorme, non ci sono le finestre. Non c’è un attimo di tranquillità. Tutto fa schifo. Siamo come dei pacchi piccoli chiusi in scatole più grandi», ha detto ai ricercatori dell’associazione 21 giugno un’abitante. Non è stato rimesso in piedi neppure il campo di via della Cesarina, dal quale 137 di loro provengono: un ex campeggio alla periferia di Roma, sulla via Nomentana, sottoposto a sequestro giudiziario e demolito con l’intenzione di risistemarlo e riconsegnarlo ai rom di via Visso.

Come ben sa chi è aduso alle italiche vicende, nel nostro paese non c’è nulla di più stabile della temporaneità. Anche perché spesso quest’ultima serve a nascondere, sotto il velo delle soluzioni urgenti, sprechi e ruberie di vario genere. «Noi quest’anno abbiamo chiuso con quaranta milioni di fatturato, ma tutti i soldi, gli utili li abbiamo fatti sui zingari, sull’emergenza alloggiativa e sugli immigrati, tutti gli altri settori finiscono a zero. Il traffico di droga rende meno», dice il presidente della cooperativa 29 giugno Salvatore Buzzi in un’intercettazione agli atti dell’inchiesta Mafia capitale. A guardare le cifre dell’emergenza rom snocciolate dall’associazione 21 luglio, si capisce a quale tesoretto mirava il presunto boss del cosiddetto Mondo di mezzo: 24 milioni all’anno per mantenere i sette “villaggi della solidarietà” dell’era Alemanno (4.400 abitanti in totale) e i centri di raccolta temporanei, distribuiti a consorzi e cooperative.

L’associazione ha fatto in conti in tasca in particolare alla gestione dei “centri di raccolta”, la nuova frontiera dell’emergenza rom nella capitale, e i numeri parlano chiaro: per ospitare 242 famiglie, 800 persone in totale, nei «loculi» (la definizione è del senatore Luigi Manconi) di via Visso e in altri due centri di «raccolta» (un’ex cartiera statale in via Salaria in precedenza occupata da bengalesi e un ex centro di assistenza per richiedenti asilo in via Amarilli, a Roma est) e quattro di «assistenza abitativa» (vere e proprie abitazioni, in questo caso), l’amministrazione Marino spende poco più di otto milioni sui 24 spesi ogni anno per il mantenimento dei campi, che fanno circa 33 mila euro a famiglia. Insomma, 2.750 euro al mese per gestire questi campi nomadi di ultima generazione, con i quali si potrebbe affittare loro un appartamento di lusso nel centro cittadino. Ma a guadagnarci, naturalmente, non sono i rom, la cui condizione sociale non avanza di un centimetro. Quest’ultimi, anzi, sono costretti a vivere, come scrive l’associazione, «in spazi segregati, privi dei requisiti minimi stabiliti dalla normativa regionale, salvadanai dove confluiscono con modalità spesso poco chiare flussi incontrollati di denaro pubblico».

L’edificio di via Visso da questo punto di vista è emblematico: sedici stanzoni ricavati all’interno della ex tipografia, tutti senza finestre e illuminati con luci al neon, con aerazione artificiale e senza alcun arredo se non quelli portati dagli ospiti.

La gestione post-Alemanno parla ancora la lingua degli affidamenti diretti a consorzi e cooperative, lievitati nel giro di un anno del 30 per cento: da sei milioni e 200 mila euro agli attuali otto. A fare la parte del leone è il Consorzio Casa della solidarietà, che da solo porta a casa la metà dei finanziamenti comunali, seguito dalla cooperativa Inopera, nata all’indomani dell’elezione del sindaco con la celtica, che continua a incassare due milioni e mezzo all’anno, più di un milione dei quali per gestire la ex tipografia senza finestre di via Visso.

Ad alimentare ulteriormente i sospetti dell’associazione 21 luglio è pure una lettera del luglio 2010, indirizzata al Comune dal presidente dell’Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e del Trifone, che gestiva il centro di via Salaria, nella quale si suggerisce a un dirigente del Campidoglio di far subentrare il Consorzio Casa della solidarietà, definito un «ente a voi conosciuto e gradito». Ebbene, è andata a finire proprio così e, grazie a un affidamento senza bando pubblico, ancora nel 2014 il Consorzio ha potuto garantire l’accoglienza, la vigilanza e il trasporto scolastico alle 102 famiglie ospitate (per un totale di 385 abitanti).
Per un costo di due milioni di euro, nessuno dei quali destinato all’inclusione sociale.

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