Sessant’anni fa nascevano i Rolling Stones. Fa un certo effetto dirlo e, ancor più, sapere che sono ancora in attività. Il Sixty Tour, partito da Madrid e approdato il 21 giugno a Milano, il primo senza Charlie Watts alla batteria, a detta di Ron Wood «non sarà certo l’ultimo». Emozionante, soprattutto a pensare che tutto è cominciato in un piccolo club di Ealing, periferia di Londra. Si chiamava G Club, era poco più di uno scantinato stretto fra un alimentari e una gioielleria, e fino a dicembre ’61 ospitava solo gruppi jazz. Ma i tempi stavano cambiando, germogliava quella che sarebbe stata la grande stagione del blues britannico. Al G Club una sera di marzo del 1962 arrivarono i Blues Incorporated di Alexis Korner, uno dei padri della musica del diavolo in terra d’Albione. C’erano Mick Jagger e Keith Richards in prima fila ad ascoltare i Blues Incorporated; c’era Charlie Watts, arruolato da Korner alla batteria «e c’erano un sacco di operai e studenti delle scuole d’arte – ricorderà in seguito Richards – che non sarebbero mai riusciti a entrare nelle grandi sale da ballo perché avevano i capelli troppo lunghi per l’epoca».

I CONSIGLI DI KORNER
Una sera Korner chiama sul palco un ospite: «Un ragazzo arrivato fin da Cheltenham per farvi ascoltare la sua chitarra». Il tipo, biondo, si presenta come Elmo Lewis ma non era altri che Brian Jones. Mick e Keith lo ascoltano estasiati perché stava facendo esattamente le cose che loro cercavano di fare. Con i consigli di Korner e la sua protezione, Mick, Keith e Brian iniziano a suonare assieme. E una sera, il 12 luglio 1962, avviene l’esordio vero e proprio della band. È un giovedì, e come tutti i giovedì i Blues Incorporated dovrebbero esibirsi al Marquee Club di Londra. Quella sera però la band ha un impegno improcrastinabile: sono ospiti di uno show alla Bbc. Per non lasciare gli amici del Marquee in braghe di tela, Korner suggerisce di farsi sostituire da Jagger e soci. Fu la prima volta che si presentarono come Rolling Stones, nome preso a prestito da una canzone di Muddy Waters, anche se nel gruppo non figuravano né Watts né Bill Wyman (alla batteria c’era Mike Avery e Dick Taylor al basso) e Jones si presentava ancora come Elmo Lewis. «Non rimediavamo molte occasioni per suonare – ricordò tempo fa Jagger in un’intervista televisiva – ma quella sera Alexis ci prestò una sua serata. E che io ricordi, fu quello il primo vero concerto dei Rolling Stones».
In ogni caso quel concerto segnò l’inizio di una delle più spettacolari saghe del rock. Per celebrarla degnamente non basta certo un articolo di giornale. Solo gli aneddoti a sfondo sessuale potrebbero riempire qualche libro; lo stesso si può dire per le storie di droga, per il gossip spicciolo, per le frasi storiche. Non è il caso. Nonostante siano stati proprio loro a vendere in giro l’immagine dei maledetti senza legge, è la musica alla fine che parla.

L’EREDITÀ
E allora definiamo il lascito musicale degli Stones, partendo da una delle frasi che meglio spiegano il fenomeno, una dichiarazione attribuita a Muddy Waters, il grande bluesman nero: «Hanno rubato la mia musica, ma mi hanno dato un nome». Mentre i Beatles si avviavano a diventare un fenomeno planetario, le orecchie degli Stones captarono suoni più antichi e lontani. Erano ben consapevoli che Chuck Berry, e non il bianco Elvis, avesse inventato il rock. Da lì i primi vagiti della chitarra di Richards, incontenibile imitatore e poi continuatore della verve musicale del grande Chuck. I primi concerti dei Rolling Stones – ricordano quelli che c’erano – «sembravano sommosse». Era la forza del blues che arriva in città. Ha i riff frenetici di Berry, ma anche le ritmiche sincopate della scuola di New Orleans. E il blues non è riletto col paternalismo dei filologi bianchi, Alexis Korner in testa. Mick, Keith e Brian spingono proprio nella direzione opposta: i suoni sono sporchi, la voce sguaiata, è la musica dei padri trapiantata in un contesto suburbano, perché gli Stones all’inizio preferiscono agire in periferia e avere una base di supporter proletari. Oltre al ponte gettato verso i vecchi maestri, c’è una marcata controtendenza culturale rispetto alla musica che furoreggia in giro. In Europa i Beatles incidono Help!, negli Stati Uniti si prepara la stagione hippie dell’amore universale. Gli Stones invece buttano lì (I Can’t Get No) Satisfaction, una sceneggiata sessuale che ha per tema l’insoddisfazione cronica di una generazione che sembra avere tutto. È un messaggio nichilista e cattivo, all’altezza della fama che il gruppo comincia a costruirsi.

ECHI PSICHEDELICI
Dopo dischi come Aftermath (1966) o Their Satanic Majesties Request (’67) avvampanti di echi psichedelici, nel 1968 Jagger vede infiammarsi i giovani europei e si butta nella mischia. Esce Beggar’s Banquet e così rientra dalla porta principale un blues graffiante e maledetto, capace di veri e propri inni di rivolta come Street Fighting Man. Gli Stones non hanno più rivali sul versante degli artisti maledetti e gli anni Settanta amplificheranno questa immagine, tra arresti a raffica, scandali, droghe pesanti, provocazioni e violenza. Mentre la leggenda monta e si ramifica, la musica continua.
Nel 1971 tocca a Sticky Fingers, album bellissimo e velenoso, con due canzoni esplicitamente dedicate alla droga (Brown Sugar e Sister Morphine). Agli Stones nessuno può contestare il titolo di più grandi. È l’età d’oro del gruppo, che sfocia quasi naturalmente in Exile on Main Street (’72), una rassegna perfetta degli stili inventati e modificati in anni di duro lavoro, forse uno dei miglior doppi album che sia mai stato inciso. Nel ’74 se ne va il chitarrista Mick Taylor (era subentrato a Brian Jones, morto nel 1969 per troppi vizi suicidi) e arriva Ron Wood. Il ricambio è più che decoroso, ma alla fine ininfluente: è Richards il mago del suono, anche a sottolineare il fatto che nella band è la ritmica e non l’assolo del solista a comandare il gioco.

GIOCO DI DESTREZZA
Per quanto un disco dei Rolling Stones sia sempre e comunque un avvenimento, il calo della creatività comincia probabilmente con Tattoo You del 1981, album peraltro eccellente, aperto da una bomba adrenalinica fulminante e divertente come la hit Start Me Up. Gli anni Novanta ce li consegnano ripuliti e relativamente tranquilli, concentrati nel più grande gioco di destrezza mai riuscito a una band: trasformare l’energia cattiva in puro divertimento rock. Jagger e soci abbandonano gradualmente le posture «maledette» per puntare sulla macchina dello spettacolo, sempre però – va detto a loro merito – rimanendo fedeli all’impronta blues della loro musica, sempre contando – anche quando lui se ne sta ridotto a uno straccio dall’eroina – sulla chitarra ribelle di Keith Richards e sulle doti istrioniche sul palco di Mick Jagger.
Buona musica sì (A Bigger Bang del 2005 ad esempio è un album coi fiocchi), ma di novità è difficile pretenderne ancora: gli Stones da lustri ormai interpretano solo il ruolo di star mondiali che senza dubbio meritano. Col tempo hanno persino smesso di litigare come comari nevrotiche, minacciare scioglimenti, annunciare memoriali esplosivi e accusarsi delle peggiori nefandezze. Si sono probabilmente resi conto di come siano cresciuti insieme e di come, insieme, abbiano conquistato il mondo. Hanno gettato un ponte tra la musica di una generazione e quella delle generazioni precedenti, facendo un regalo a se stessi e a chi li ha ascoltati. E rendendo un servizio inestimabile al rock, che ha potuto ancora una volta dimostrare la sua tesi più gagliarda e vera: quella secondo cui non ci sono limiti a due chitarre, un basso e una batteria, se ci sono attorno artisti geniali capaci di usare questi strumenti.