Roger Federer ha annunciato il suo ritiro dal tennis. Poche battute per dire che è ora di pensare ad altro. La Rod Laver Cup, poco più di un’esibizione accanto ai suoi grandi rivali Rafa Nadal e Novak Djokovic, sarà l’ultimo grande spettacolo. E poi basta. A quarantuno anni, fisico e mente non hanno accettato sfide reputate ormai impossibili da vincere:continuare a confrontarsi con i vecchi rivali (comunque più giovani di lui di almeno un lustro) e, soprattutto, affrontare i ben più freschi nuovi astri della scena mondiale che possono permettersi di disperdere dosi incalcolabili di energie su un apparentemente piccolo rettangolo di gioco diviso da una rete. Per una casualità, la dichiarazione del congedo illimitato arriva proprio nella prima settimana da numero uno del diciannovenne spagnolo Carlos Alcaraz, quello che, speriamo con Jannik Sinner, si appresta a lasciare un segno altrettanto indelebile nella storia del tennis.

TROPPO agonista Federer per considerare l’eventualità di partecipare al solo scopo di esserci. Perché se è vero che nel suo gioco prima di tutto viene il divertimento, staccato di una sola incollatura vi è il desiderio di alzare trofei, di prevalere sull’avversario, di sentirsi un numero uno anche quando nel 2017 vinse a sorpresa gli Open d’Australia da diciassette del mondo, dopo che in tanti lo avevano considerato un ex giocatore. Ora è lui a percepirsi come un ex, e questo è stato sufficiente per rilanciare uno stringato comunicato via Instagram.
La notizia di per sé non è affatto sorprendente. Un ritiro inevitabile dopo le operazioni al ginocchio, la lunga inattività, l’età che consiglia altro tipo di attività. Si trattava solo di capire non se ma quando sarebbe accaduto. Tuttavia, di fronte al fatto compiuto non si può che mostrare malinconia, forse tristezza e sgomento per i più appassionati, per quelli che avrebbero comprato l’ennesimo biglietto pur di assistere a un suo incontro.

È LA FINE di un’epoca, di gesta sportive che ora diventano archivio, che non possono essere aggiornate ma ricapitolate. Resta l’immaginario, e non è poco. E certamente rimane il campione che difficilmente si staccherà in modo brusco da questo mondo come in precedenza hanno fatto, ad esempio, personaggi altrettanto importanti come Pete Sampras e Bjorn Borg. In un’ipotetica classifica, per il campione svizzero dopo il bel gioco e la voglia di vincere, al terzo posto si piazza il contatto con il pubblico. Finiti i match, anche quelli più intensi, si poteva notare il piacere di parlare, di intrattenere gli spettatori, il sentirsi a proprio agio col microfono, salutando la moglie e i quattro figli, lasciandosi andare a qualche battuta e a esprimere l’incontenibile felicità per aver ricevuto quell’ineguagliabile dono.
All’opposto, Nadal in un inglese sempre stentato, persino dopo maratone interminabili, fremeva (e continua a fremere) per riprendere immediatamente la racchetta in mano e allenarsi un altro paio di ore. E Djokovic sorridente e, al tempo stesso, intimamente arrabbiato, che dispensava baci e cuori e poi squadrava ogni singolo tifoso per chiedergli perché mai non lo amasse, perché volesse bene agli altri due e a lui no.

IN QUESTI giorni si è parlato molto della fine del Novecento. Per sua fortuna, Federer gode di buona salute e avrà molto tempo a disposizione per le sue camminate in montagna, per giocare con le due coppie di gemelli, per stare insieme a Mirka Vavrinec, persona fondamentale nella maturazione sportiva del campione che non è stata istantanea come per i più precoci Borg, Wilander, Becker, Sampras, Nadal e ora Alcaraz, solo per fare alcuni nomi. E avrà la possibilità di gestire il suo impero economico e, come detto, di continuare a seguire il suo amato tennis.
È indubbio, però, che con la sua uscita di scena, questo sport perde definitivamente contatto col secolo precedente. L’otto volte vincitore di Wimbledon e in totale di venti Slam, pur avendo dominato in solitaria e in coabitazione questo primo ventennio di inizio millennio, è l’ultimo rappresentante di un modo di intendere il tennis ormai dimenticato. In un certo senso, Federer è stato capace di unire l’estemporaneità e la brillantezza dei tennisti della vecchia generazione e la programmazione e la preparazione ossessiva che ha segnato l’avvento di una nuova era.
D’altro canto, senza la disposizione ad allenarsi in modo maniacale e a cambiare schemi di gioco non sarebbe mai tornato a primeggiare la classifica mondiale a trentasei anni e mezzo e ad arrivare a un millimetro dal vincere Wimbledon a quasi trentotto.

A differenza di Nadal e Djokovic, che alla fine lo hanno superato nel numero delle vittorie più importanti e negli scontri diretti, il fuoriclasse di Basilea è pressoché inimitabile (anche nelle sue fragilità emotive). I suoi due avversari hanno studiato, si sono applicati, lo spagnolo ha sfruttato la decisione di trasformarsi in un mancino per inchiodare l’avversario più temibile sulla diagonale sinistra, il serbo ha modificato il suo stile di vita pur di costringere il divino a scendere sulla terra. Però Federer è rimasto unico, perché con quel suo modo di stare ostinatamente dentro il campo, rifiutandosi di arretrare, anticipando i colpi, inventando cose che gli umani non hanno mai visto, non ha offerto alcun modello da seguire. Per essere Federer bisogna essere Federer!